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Amore di Dio e amore del prossimo
(Rav Luciano Caro)


Cosa significa, innanzi tutto, amore di Dio? E' l'amore che noi dobbiamo portare nei confronti di Dio, o vuol dire l'amore che Dio ha nei nostri confronti? Il testo biblico ci suggerisce che dobbiamo amare Dio e non suggerisce a Dio di amare noi, ma forse Lui non ha bisogno che ciò gli venga suggerito. Inoltre il testo biblico ci suggerisce che dobbiamo amare il nostro prossimo.
Tenete conto di un presupposto, che è questo: la cultura ebraica rifugge dalle ideologie grandi, ma è piuttosto orientata verso una forma di prassi, di comportamento, tant'è vero che qualcuno definisce l'ebraismo un'ortoprassi; non è tanto importante l'ideologia, quanto piuttosto il modo con cui noi realizziamo determinati principi. Quindi quando noi diciamo amore di Dio, diciamo una gran bella cosa, ma non sappiamo bene cosa vuol dire e come posiamo realizzarla nella pratica quotidiana. La trappola consiste in questo: una dichiarazione, una declamazione del tipo: "Io amo Dio; io amo il prossimo", non costa niente, però cosa ci mettiamo dentro a questo amore?
Già è difficile definire cos'è l'amore; ancora più difficile è definire cosa sia l'amore che noi dobbiamo nei confronti di Dio e nei confronti del prossimo. Si rischia, qualche volta, di dire delle ovvietà e banalità che poi non hanno una traduzione nella nostra vita quotidiana.
Tenete conto anche di un altro elemento. Fino a qualche tempo fa si sosteneva che una delle differenze sostanziali che c'è tra ebraismo e cristianesimo è che l'ebraismo è la religione della giustizia - "Occhio per occhio" e così via - , mentre il cristianesimo sarebbe la religione dell'amore. Io credo che questa espressione non sia assolutamente rispondente al vero.
C'è chi sostiene che l'ebraismo, tutta la cultura ebraica a partire dal periodo biblico e poi nel periodo post-biblico, sia impregnata di amore, non meno di quanto sia impregnata del desiderio e dell'aspirazione verso la giustizia. Noi sosteniamo queste cose anche nei confronti di Dio, un po' scherzosamente; perché quando ci troviamo di fronte a delle problematiche difficili da affrontare, qualche volta cerchiamo di guardarle con un sorriso. L'intellettuale di turno, circa due, tremila anni fa, ha domandato: "Ma come passa il tempo Dio?"; la risposta è stata che Dio è molto stanco, perché passa il tempo a spostarsi dal trono della giustizia al trono dell'amore, perché deve governare l'universo con questi due elementi. Un universo governato solo dalla giustizia, non sopravvivrebbe, perché Do dovrebbe distruggerci tutti; allo stesso modo, non sopravvivrebbe un universo governato solo dall'amore, perché non ci sarebbero meriti e demeriti, in quanto saremmo obbligati ad amarci e quindi non avrei alcun merito nell'essere obbligato a fare qualcosa da cui non posso fuoriuscire.
Ebbene, tutta la cultura ebraica è attraversata da questo desiderio dell'amore, sempre intrecciato, però, col desiderio della giustizia.
Amore di Dio, amore nei confronti delle creature e amore nei confronti dello straniero. Non c'è nessuna norma biblica, nella Torah, che sia così ribadita come la tutela dei diritti dello straniero; 36 volte c'è questo imperativo: "Ama lo straniero! Rispetta lo straniero!".
Da queste tre istanze principali, secondo il nostro modo di pensare, derivano delle conseguenze. L'amore che l'uomo deve portare nei confronti di se stesso; io sono una creatura di Dio e devo aver cura di me stesso, della mia esistenza. L'amore che dobbiamo portare nei confronti del nostro partner; la moglie per l'uomo e il marito per la donna. L'amore nei confronti della nostra famiglia. L'amore che dobbiamo alla terra di Israele. L'amore per la Torah, l'insegnamento di Dio e finalmente l'amore nei confronti della sapienza, cioè di chi è portatore di sapienza, chi ci trasmette messaggi di sapienza. Queste cose non sono dette esplicitamente, ma noi le facciamo derivare dal comando dell'amore.
Secondo i nostri filosofi, l'amore per Dio è la motivazione e lo scopo dell'obbedienza ai precetti. Dio ci ha dato dei precetti e lo ha fatto perché noi, attraverso l'osservanza di essi, addiveniamo all'amore per Lui. Nemmeno tra gli ebrei questa cosa è accettata semplicisticamente; qualcuno dice che non bisogna cercare alcuna motivazione ai precetti, ma bisogna osservarli senza stare a guardare se lo scopo è quello di portare maggiore religione, maggiore solidarietà tra gli uomini, ecc.

Il grande Maimonide, uno dei colossi del nostro pensiero, vissuto nel XII sec., dice che l'amore nei confronti di Dio è il massimo grado a cui si può pervenire nel servizio di Dio. Noi dobbiamo servire Dio e questo servizio nei confronti di Dio ha vari livelli; il massimo livello è costituito dall'amore.
Vi sto introducendo verso quella che è la concezione dell'ebraismo; in qualche modo si sostiene, da molte parti, che non dobbiamo amare Dio, ma aspirare ad amare Dio. Amare Dio non è un qualcosa che possa essere imposto dall'esterno.
Come si possa  pervenire a questo amore verso Dio, secondo qualcuno è già implicito nel testo biblico. Il passo più classico che ci indirizza verso questo elemento dell'amore di Dio è quello di Deuteronomio 6: "Ascolta Israele…amerai il Signore con tutto il tuo cuore, tutta la tua persona e tutte le tue facoltà". Qui c'è l'imperativo: "Devi amare Dio con tutte le facoltà di cui disponi!", però non dice come devo fare. Forse la risposta è implicita nelle espressioni che vengono subito dopo: "Devi ripetere queste cose ai tuoi figli, parlarne, stando in casa, andando per strada, coricandoti e alzandoti, legando queste cose come segno sul tuo braccio e tenendole come frontale tra i tuoi occhi e scrivile sugli stipiti della porta della tua casa e delle porte della tua città". Cioè l'amore di Dio potrebbe forse realizzarsi con lo studio: "Studia le parole che Dio ti ha rivolto nel testo biblico, ripetile ai figli, parlane costantemente!"; questa è la modalità attraverso cui si può addivenire all'amore di Dio. Cioè non è una questione tanto di sentimento, ma devi arrivarci, mediante lo studio, la trasmissione di queste cose alle generazione che vengono dopo di te.
Secondo questa visione, dunque, lo studio della parola di Dio porta alla conoscenza di Dio, all'osservanza dei precetti di Dio e, come dice ancora Maimonide, quando si perviene a questo, se ne trae il godimento spirituale, che porta all'amore. Contemplando le cose meravigliose che Dio ha creato, riusciamo a comprendere la sua infinita saggezza e immediatamente il passo successivo è l'amore verso Dio; prima lo stupore, la considerazione per la grandezza incommensurabile e subito dopo l'amore. Sono degli sforzi per cercare di capire come si può realizzare concretamente l'amore per Dio.
Maimonide continua e dice: "Questo amore, una volta conseguito, è più forte del sentimento che ha un essere umano malato di amore". Capita qualche volta di innamorarci, in forma morbosa, in forma tale che non riusciamo a distogliere il pensiero nemmeno per un istante dall'oggetto del nostro amore. Ma l'amore per Dio è della stessa categoria, però ancora più forte.
Si racconta di una grande maestro al quale un allievo fece la domanda: "Leggiamo nel testo biblico che bisogna amare Dio; ma come si fa ad amare Dio?" e il maestro ha risposto: "Questo è secondario; tu comincia ad amare il prossimo".
Ci sono dei passi che dobbiamo compiere per arrivare all'amore di Dio e il primo passo è, appunto, l'amore verso il prossimo.
Voglio ancora aggiungere un elemento. Nel testo biblico molto spesso ci imbattiamo in un'espressione che ci invita ad avere verso Dio un atteggiamento speciale; fino adesso ho parlato dell'amore, ma qualche volta si parla di "timore di Dio". Noi Dio dobbiamo amarlo e dobbiamo temerlo. Anche qui ci domandiamo: "Cosa vuol dire temere Dio? Come si traduce questo timore di Dio?". Tutti i nostri interpreti sono d'accordo che non si tratta di timore nel senso di paura, ma piuttosto di riverenza, di onore che noi dobbiamo portare a Dio. Inoltre l'espressione "timor di Dio" nel testo biblico, dal punto di vista dei nostri interpreti, è assimilata al concetto della fede in Dio; cioè temere Dio vuol dire avere fede Dio. Questo elemento della fede in Dio è attribuito nella Bibbia molte volte anche a dei non ebrei, ai pagani; tutte le volte che ci troviamo di fronte a un pagano che si comporta con giustizia e senso morale, anche nei confronti di chi è più debole di lui, bene, il testo biblico dice che questo è uno che teme Dio, un "temente di Dio". Timor di Dio significa avere un'attenzione non nei confronti di Dio, ma verso un prossimo, soprattutto quando quel prossimo è in condizione di debolezza.
Voglio accennare un altro elemento, cioè il pensiero della mistica ebraica, la cabbalà, su questo tema. Scopo della creazione dell'uomo è quello che egli arrivi alla conoscenza di Dio. Conoscenza nel senso biblico non è solo prendere coscienza di qualche cosa. Si parla di Adamo che conobbe Eva, sua moglie e poi lei è rimasta incinta, quindi conoscere voleva dire, in quel caso, avere un rapporto coniugale con lei. Conoscenza nel senso di compenetrazione di carattere fisico, ma anche di carattere spirituale. Secondo la visione dello Zohar, che è il testo fondamentale della mistica ebraica, lo scopo dell'uomo è quello di cercare di conoscere Dio, nel senso di compenetrarsi in Lui, con un'unione che potrebbe essere analoga, in qualche modo, persino a un rapporto sessuale, cioè una compenetrazione totale e questa non può essere disgiunta dall'amore.

Un altro elemento che vorrei proporvi è quello della ghematrià, cioè un particolare modo di accostarsi al testo biblico. Ghematrià non è parola ebraica e non sappiamo di che origine sia, ma significa interpretare il testo biblico non in senso letterale, ma scindendo ogni parola dalle lettere dalle quali è composta e esaminando, calcolando il valore numerico di ogni singola lettera, partendo dal presupposto che la alef vale uno, la bet, seconda lettera dell'alfabeto, vale 2 e così via. Per qualcuno questo è solo un giochetto, ma qualcun altro sostiene che se si applica questa modalità all'esame del testo biblico, si aprono degli orizzonti ai quali non si sarebbe mai potuto pensare. Vi do l'esempio per quanto riguarda il nostro problema. La parola "amore" in ebraico si dice ahavà, che ha valore numerico 13; il doppio di 13 è 26, che è il numero risultante dal conteggio delle lettere del sacro tetragramma, cioè le lettere che compongono il nome di Dio. Come a dire che due amori valgono Dio; mettiamo insieme il mio amore con l'amore di Dio, quindi mi fondo, entro dentro la divinità.
Un'ultima cosa a proposito della mistica ebraica. A proposito di quelle persone che combinano dei guai particolarmente gravi, si afferma, con un'espressione particolare, che "non ha parte del mondo a venire". Tra le cose attribuite a una tale persona, lo Zohar enumera il fatto che tale persona sostiene che le azioni dell'uomo non hanno conseguenze sulle azioni di Dio. Invece non c'è niente che si muova nell'alto, se non come conseguenza del nostro comportamento; lo Zohar ha questa visione. Anche il gesto più insignificante e banale, che noi compiamo, ha delle ripercussioni cosmiche, che coinvolgono la divinità. Fai ben attenzione, perché dal tuo comportamento può derivare anche la distruzione dell'universo. Chi sostiene il contrario, non è degno di ottenere la vita eterna. E' il punto di vista ebraico: noi dobbiamo non tanto manifestare l'amore, ma fare qualche cosa; ci è richiesto di tradurre l'amore con delle azioni pratiche, se no l'amore non ha nessun significato. Dire: "Io amo Dio" non mi costa niente; ma se questa frase non è legata a qualcosa di pratico, potevo anche fare a meno di dirla.
Volevo passare al secondo elemento, cioè l'amore verso il prossimo. Il passo più clamoroso è quello del libro del Levitico, che dice: "Amerai il prossimo tuo come te stesso" (Lv 19, 18). Questo passo, però, non va staccato dal suo contesto; si dice anche: "Non commettete iniquità nella giustizia; giudica con giustizia il tuo compagno; non andare a spettegolare; non stare inerte vicino al sangue del tuo compagno; non odiare il tuo compagno in cuor tuo; ammonisci il tuo compagno e non sopporterai il peccato al posto suo; non serbare rancore con i figli del tuo popolo; amerai il tuo prossimo come te stesso. Io sono l'Eterno. Osserverete le mie leggi, i miei statuti…". Bene; cerchiamo di capire il contesto. Ci vengono chieste determinate cose e la continuazione è: "Osserva gli statuti, le leggi", il che vuol dire che ci dev'essere un nesso. Ma la trappola consiste nel fatto che questa traduzione: "Amerai il prossimo tuo come te stesso" assolutamente non è giusta. E' un'espressione molto delicata e complessa, che ha turbato i sogni di tutti gli interpreti della Bibbia in tutti i secoli e non sappiamo ancora cosa voglia dire veramente; l'unica cosa che sappiamo con certezza è che questa traduzione è sbagliata. Non vuol dire "Ama il prossimo tuo come te stesso". Quando affrontiamo il testo biblico, noi dobbiamo appropriarci della lingua, cercare di capire cosa dice. Il mio compito è quello di aprirvi delle finestre.
Dal punto di vista grammaticale, semantico, il verbo "amare" regge l'accusativo; qui, invece, il testo mette il dativo: "Ama al prossimo tuo". Cosa vuol dire? E poi "come te stesso" cosa significa? Che devo amare al mio prossimo, come amo per me, o vuol dire: "Ama il prossimo tuo, che è come te"? Lo devo amare così come amo me, o lo devo amare tenendo conto che lui ha le stesse esigenze mie? Oppure vuol dire: "Ama quello che è come te", quindi non tutti, ma solo quelli come me; ad es. solo i maschi, solo gli ebrei, solo gli italiani, solo quelli di una certa fascia di età? Vuol dire questo? Io non credo, però abbiamo delle difficoltà. Inoltre, credo che tutti siamo d'accordo nel riconoscere che amare il nostro prossimo come noi stessi, è impossibile. Se volete che vi dica che io amo il prossimo, cioè tutti gli esseri umani, come amo me, io ve lo dico, ma non è vero! Amo i cinesi come amo me stesso? Non è vero, sto dicendo una sciocchezza.
Il testo biblico non può chiederci qualche cosa che è al di fuori delle nostre possibilità; perché l'essere umano medio ha un istinto che lo spinge ad amare prima di tutto se stesso; poi ci sono dei casi eccezionali, di persone che sacrificano loro stessi in un atto di abnegazione nei confronti dell'amore per un altro o per qualche cosa. Ma il testo biblico si rivolge a tutti gli uomini.
Cosa vuol dire questa roba, allora? Noi non lo sappiamo. Ma siccome moltissime volte compare il verbo amare e poi il complemento oggetto, mentre qui c'è il dativo: "Ama a", di solito si traduce: "Ama per il tuo prossimo quello che ami per te". Prescindendo dall'elemento sentimentale, non mi viene chiesto di amarvi, ma mi viene chiesto di darmi da fare, perché voi abbiate le stesse cose che desidero io. I sentimenti non c'entrano, ma c'entra l'azione.
I nostri maestri hanno detto che qui l'espressione dei sentimenti è completamente fuori luogo, perché o io vi amo, o non vi amo e se non vi amo, non c'è forza al mondo che mi possa costringere ad amarvi; quello che ci impone questo testo è di mobilitare il nostro tempo, il nostro denaro, la nostra intelligenza, le nostre facoltà, il nostro impegno nei confronti dei nostri simili. Soprattutto in quelle volte in cui non abbiamo, da questo tipo di comportamento, nessun vantaggio personale. Perché molto spesso ci capita di fare del bene a qualcuno, ma sotto sotto portiamo il pensiero che un giorno o l'altro ne avremo una retribuzione: o dalla persona stessa che benefichiamo, o dal Padre eterno, che mi ricompenserà. I maestri dicono che questo non dev'esserci assolutamente; caso mai deve esserci il contrario: la perdita di qualche cosa. Devo fare qualche cosa, che può anche portarmi degli svantaggi: perdo tempo, denaro, tranquillità, ecc.
Un grande interprete della Torah dice che dobbiamo avere aspirazione a recare sollievo al prossimo, mettendo a disposizione tutto quello che possiamo, analogamente a quanto aspiriamo per noi stessi. Io desidero essere ricco? Bene, devo fare in modo che anche gli altri arrivino alla ricchezza. Desidero la salute, la tranquillità? Devo darmi da fare perché anche gli altri abbiano queste cose, indipendentemente dal fatto che io li ami o no, ma mi devo dare da fare concretamente per loro.
Voglio esporvi il pensiero dei maestri del Talmud in merito a questo versetto. Anche loro sono tutti protesi a cercare le modalità pratiche per realizzare le parole della Torah. Molto spesso i maestri ci propongono delle risposte con la non troppo segreta speranza che noi non le accettiamo; ci danno un'interpretazione paradossale, in modo che intervenga il nostro spirito critico per spingerci ad un'ulteriore ricerca per avvicinarci ulteriormente alla verità.
A proposito del versetto: "Ama per il prossimo tuo quello che ami per te stesso", il Talmud ci propone delle casistiche. La prima è questa: da qui impariamo che, allorché dobbiamo condannare a morte qualcuno, dobbiamo scegliere per costui la morte meno dolorosa possibile; con questo ragionamento: se fossi io il condannato e dovessi scegliere le modalità, sceglierei quella meno dolorosa. Qualunque sia il delitto dell'imputato, anche il più enorme, non devo dimenticare che lui aspirerebbe a una morte il meno dolorosa possibile. Non credo che sia questo il senso del testo.
Dovete sapere che nell'ambito del rispetto che dobbiamo ai genitori, la normativa ebraica sostiene che mi è assolutamente proibito causare a un mio genitore una lesione qualsiasi; io non posso dar pugni, non posso nemmeno fare un'iniezione a un mio genitore, perché gli causo una lesione. Anche facessi il chirurgo, io non posso intervenire su mio padre o su mia madre, a meno che non ci sia nessun altro, o che io abbia la consapevolezza che io sono il più bravo di tutti i medici in assoluto. Questa norma la impariamo da questo versetto. Tuo padre non è solo tuo padre, ma anche il tuo prossimo; lui aspira alla guarigione, quindi tu devi tener conto dei suoi interessi, che sono quelli di guarire. L'istanza di mancargli di rispetto diventa secondaria di fronte a quello che è il suo desiderio, cioè di guarire. Pensate che Mosè pensasse a questo quando ha scritto: "Ama al prossimo tuo…"?
Altre due risposte, ma sempre con l'invito pressante a studiare sopra il testo per cercare una risposta. Bene, da questo versetto si impara che è proibito sposarsi senza avere visto preventivamente il partner. Nell'antichità i matrimoni venivano combinati e perciò accadeva che il partner si vedeva solo all'atto delle nozze. I maestri dicono: questo è proibito, secondo questo versetto. Se non l'hai visto prima, questo ti può suscitare un sentimento di repulsione verso quella persona; se sei costretto a dir di sì, ti ribelli e così corri il rischio di contravvenire al precetto dell'amore che devi al prossimo.
Un'ultima interpretazione assurda, che vuole sottrarci all'indifferenza e vuole invitarci a studiare la Parola di Dio, a contemplarla, a considerarla da tutte le angolazioni possibili, facendone scaturire degli insegnamenti che non finiscono più, non come si fa col Corriere della Sera, che si legge e poi si butta via. E' proibito avere rapporti sessuali di giorno. Il rapporto sessuale è un coinvolgimento dei due partner che ha degli aspetti fisici, ma anche degli aspetti spirituali, che fuoriescono dall'aspetto fisico del proprio partner. Orbene: vedendo il proprio partner, nel momento in cui ci dovrebbe essere il massimo connubio tra i due, potremmo verificarne degli elementi di carattere negativo. "Veramente, guardandola bene, ha gli occhi storti", o: "Costui ha un fiato insopportabile". Quindi dobbiamo farlo al buio, così che non vediamo o intravediamo degli elementi negativi, che ci porterebbero a una forma di critica nei confronti del nostro prossimo.
Sono d'accordissimo con voi nel dire che questo non è il senso del nostro testo.
Discutendo su tutte queste cose, i nostri maestri sono giunti a delle conclusioni: tutte le norme che, nel testo biblico, riguardano i rapporti tra persone, sono sotto l'ombrello di questa espressione: "Ama per il prossimo tuo quello che ami per te". In particolare ci sono dieci cose che noi dobbiamo fare nei confronti del nostro prossimo, che sono accennate dal testo biblico, ma non dette con molta chiarezza e che sono delle esemplificazioni di quello che noi dobbiamo fare nei confronti dei nostri simili, per addivenire a cercare per loro quello che cercheremmo per noi. Queste dieci cose fanno parte della liturgia quotidiana degli ebrei e anche di quelle cose di cui i maestri dicono che ci sono delle cose nel mondo che mettendole in pratica noi ne godiamo gli interessi in questo mondo, ma il capitale si mantiene integro per il mondo futuro. Quali sono queste dieci cose? Ve ne dico alcune, in forma disordinata, perché non è che ce ne siano alcune più importanti delle altre.
La visita ai malati; abbiamo l'obbligo di andare a trovare chi è malato, ma entro certi limiti, come quello di scegliere i momenti opportuni, di non interferire con la terapia, ecc. Indipendentemente dal fatto che questo essere umano malato sia simpatico o no, sia di pelle bianca o no, che l'amiamo o no, noi abbiamo l'obbligo di andarlo a trovare, che significa essere lì presenti, incoraggiarlo, ecc.
C'è una frase talmudica che dice che ogni persona che va a visitare un malato, gli sottrae un sessantesimo della sua malattia; non è da prendere alla lettera, ma vuol dire che una visita al malato è sempre un briciolo di sofferenza in meno per lui e tu hai il dovere di darglielo.
Un altro elemento collegato con questo, è il divieto di lasciare morire una persona da sola. Bisogna stare accanto a un moribondo, fino a che sia avvenuta la dipartita; è lecito lasciarlo solo nel caso in cui andiamo a fare qualche cosa che sia finalizzato alla sua terapia (chiamare un'ambulanza, un medico, ecc.). Davanti a uno che sta morendo, tutte le altre istanze della vita passano in secondo piano. Così come a me non piacerebbe morire da solo come un cane, allo stesso modo non devo lasciare che un altro muoia da solo.
Ancora: provvedere alla sepoltura di un morto. Se non c'è nessuno che possa farlo, devo occuparmene io. Un altro elemento collegato con i morti. Se mi capita di veder passare un funerale, se ci sono degli accompagnatori, io devo fare almeno due o tre passi con il corteo; non posso disinteressarmi, anche se ci sono degli altri accompagnatori e anche se io non so nemmeno chi sia il morto. Se poi non c'è nessuno che l'accompagna al cimitero, devo andarci io; non si può lasciar seppellire un tale da solo, senza la presenza di amici, conoscenti, parenti e così via.
Poi ci sono degli altri elementi. Per es. l'accompagnamento degli ospiti. Quando riceviamo qualcuno a casa nostra, dopo averlo ospitato, dopo avergli dato da mangiare, essere stati in sua compagnia, quando è ora di lasciarci, non possiamo semplicemente salutarlo e lasciarlo andare via, ma dobbiamo accompagnarlo per un pezzo di strada, in modo che lui non abbia la percezione che per noi è un piacere che se ne sia andato.
Un altro elemento è il rallegrare lo sposo e la sposa in occasione di una celebrazione di nozze. Se io partecipo a un matrimonio, ho il dovere di rallegrare i due coniugi, ma soprattutto la sposa, anche se magari non la conosco direttamente; devo fare un qualche cosa per rendere la cerimonia, la festa, piacevole per la sposa. Non è detto in che modo, quello sta a me trovarlo: un sorriso, un regalo.
Un altro elemento è il riportare la pace tra due esseri umani che hanno litigato, in particolare tra marito e moglie. Due stanno litigando e io devo darmi da fare per cercare di recuperare la loro sintonia, a prescindere dal fatto che magari uno dei due mi sia odioso. Dobbiamo pensare: se io avessi litigato con qualcuno e una terza persona mi fa recuperare la pace, mi farebbe piacere e perciò devo anch'io fare lo stesso nei confronti di un altro.
Tutte queste cose che vi ho detto, sono del tutto indipendenti dall'amore; molto spesso, infatti, si parla di persone che mi sono assolutamente estranee. Mi viene richiesto ugualmente di fare qualcosa in favore degli altri; e facendolo, nasce in me una certa forma di simpatia verso quella persona, che prima non conoscevo neanche. Se partecipo a un matrimonio e riesco a far sorridere la sposa, non è così indifferente e mi resteranno dei sentimenti sicuramente positivi.
Come si è detto riguardo all'amore di Dio, lo stesso vale per l'amore del prossimo: non è importante l'arrivo, ma la strada per arrivare e la strada va sempre percorsa attraverso azioni pratiche. Dire: "Ti amo tanto", non significa niente; io devo agire.
Vi parlo brevemente della tzedakà. Letteralmente tzedakà significa "giustizia", ma non ha niente a che vedere con la giustizia dei tribunali. Si tratta, invece, dell'aiuto che noi dobbiamo prestare al bisognoso. Un tale è in una necessità materiale, o psicologica, o economica, io sono obbligato ad aiutarlo. Ma questo non è un atto di bontà, bensì un atto di giustizia; non posso dire: "Come sono buono!", perché era un qualche cosa che dovevo fare.
Nei nostri testi, questa faccenda della tzedakà è codificata in modo straordinariamente ampio e ci viene spiegato cosa si deve o non si deve fare nell'atto in cui io aiuto un'altra persona. Non è sufficiente che io vada da uno e gli dia una somma di denaro, ma ci sono delle modalità ben precise con cui fare questo, evitando il più possibile qualsiasi intervento diretto, offensivo, imbarazzante. Ad es. prendere dei soldi e metterglieli in mano. L'ideale è quello di aiutare il prossimo senza sapere chi si sta aiutando, senza che chi è aiutato sappia da chi gli viene l'aiuto e che chi lo dà lo dia col sorriso, con benevolenza e contento di farlo senza aspettarsi nessun tipo di contropartita. Questa è la forma migliore, poi ci sono altre forme intermedie.
L'ideale, dicono i maestri, sarebbe di stabilire con il bisognoso un patto di collaborazione. Ad es: ho bisogno di un socio per la mia attività; c'è una persona che io vorrei aiutare e così le chiedo di unirsi a me, ma lui non deve avere la percezione che io lo sto aiutando, ma piuttosto che lui sta facendo un piacere a me.
Naturalmente poi i maestri discutono nel Talmud su queste cose. C'è il caso, per es. degli imbroglioni, di quelli che chiedono un aiuto anche quando non hanno bisogno e se ne approfittano. I maestri dicono che noi dobbiamo essere grati a questi imbroglioni, perché l'imbroglione che ci sta davanti, è quello che riesce a farmi capire l'imbroglione che sono io. Davanti a un disonesto io dovrei domandarmi: "Ma io sono molto meglio? In circostanze analoghe, io farei meglio di lui?". Quindi anche gli imbroglioni hanno la loro posizione nell'economia generale della solidarietà che ci deve essere nella società.



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