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Apocalittica ed escatologia ebraica
(Rav Luciano Caro)
Il problema di quello che accadrà all'uomo come singolo e all'umanità come collettività dopo il passaggio all'altra vita, non ha mai interessato in modo particolare il popolo ebraico. Sì, se ne parla in qua e in là, ma non esiste una dottrina precisa, organica e studiata con attenzione.
Questo succede forse anche perché il testo biblico e in specifico Deuteronomio 29, 28 sembra quasi volerci allontanare da considerazioni che sono fuori della nostra portata; dice così: "Le cose occulte appartengono al Signore, nostro Dio, ma le cose rivelate sono per noi e per i nostri figli, per sempre, affinché pratichiamo tutte le parole di questa legge".
Dunque un invito a tenere i piedi per terra, ad occuparci della cose rivelate e non a quelle occulte e misteriose, per occuparci a mettere in pratica la Legge del Signore.Anche lo Zohar, un testo fondamentale della mistica ebraica, la Qabalah, sembra condurci nella stessa direzione, quando si ferma a considerare il perché la Bibbia cominci con la seconda lettera dell'alfabeto ebraico e non con la prima, come sembrerebbe logico, visto che il messaggio di Dio è ordine e armonia perfetta. Perché, dunque, la bet e non la alef? Alcuni maestri dicono che Dio ha scelto la lettera bet b, perché con la sua forma particolare, chiusa su tutti i lati eccetto il davanti, sembra dirci di non occuparci di ciò che sta al di sopra di noi, né di ciò che sta al di sotto e nemmeno di ciò che sta prima di noi, ma solo di quanto ci sta davanti. Come anche l'Eterno, che dopo aver creato il mondo, guarda in avanti,
Un'altra interpretazione parte dal valore numerico della bet, che è 2 e afferma che il testo biblico inizia con questa lettera, perché vuole sempre ricordarci che, nell'accostarsi allo studio del testo, bisogna sempre tener conto che esistono due realtà: la realtà che si vede e la realtà che non si vede, che c'è, al di là della capacità che noi abbiamo di prendere un contatto diretto con essa.
Premesso questo, passiamo a prendere in considerazione le diverse realtà che costituiscono la tematica dell'escatologia, dell'al di là nella tradizione ebraica.
Innanzi tutto poniamoci il problema dell'esistenza dell'anima. Prima di parlare dell'immortalità dell'essere umano, il testo biblico parla dell'anima, cioè di una parte immateriale che costituisce la persona? Questo è un grosso problema, perché non abbiamo risposte.
Nella Bibbia ricorrono frequentemente alcuni termini che, comunemente, vengono tradotti con "anima", ma, per parte mia, non sono affatto sicuro che il loro vero significato sia proprio questo. Abbiamo, ad es. nefesh, poi neshamà e anche ruach. Cosa significano? Nefesh, piuttosto che "anima", potrebbe indicare l'essere umano in generale. Invece di tradurlo con anima, sarebbe più giusto renderlo con "vita", anche perché viene usato molto spesso in sostituzione a "sangue". Forse si tratta dell'elemento vitale, ciò che consente all'essere umano di vivere. Neshamà, invece, è l'alito, il respiro e ruach il vento, lo spirito.
Ma anche così, viene da chiedersi se il testo biblico voglia indicare, con questi termini, la parte immateriale dell'uomo oppure no. Io non ho risposte certe.
Il testo biblico, parlando della creazione dell'uomo da parte di Dio, fa intendere che ci fosse un progetto di eternità per l'uomo, che è stato disatteso e distrutto a causa della disobbedienza. Sì, l'uomo ha fatto esperienza della morte solo dopo aver mangiato del frutto che gli era stato proibito, quello dell'albero della conoscenza del bene e del male. Fate attenzione: non gli era stato proibito il frutto dell'albero della vita, anch'esso presente nel giardino di Eden.
Questo racconto di Genesi, che dovremmo leggere e meditare attentamente, ci fa capire che la morte è una conseguenza della disobbedienza dell'uomo al comando di Dio; da se stesso l'uomo si è procurato la morte.
E il tema dell'al di là, il problema della vita dopo la morte? Il testo biblico è particolarmente laconico, purtroppo. Troviamo, sì, accenni qua e là, ma si tratta di allusioni molto vaghe ed incerte. Per es. emerge la figura dello Sheòl, questo luogo in cui gli uomini vanno dopo la morte.
Ma cosa significa, in realtà, il termine sheòl? Pare voglia dire "abisso", "profondità". Ma non sappiamo se si intenda abisso come profondità della terra, in cui l'uomo viene inumato dopo la morte, oppure abisso come luogo sotterraneo in cui gli esseri umani sopravvivono, dopo la vita terrena.
E' molto difficile riuscire a costituire una teoria organica a partire dal dato biblico, ma bisogna accontentarsi di alcuni dati sparsi, raccolti qua e là.
Per esempio sembra che lo Sheòl sia un luogo in cui i morti sopravvivono, ma come in un simulacro della vita terrena, dove rimane il dolore della carne, la sofferenza dell'anima, ma senza che la persona possa avere contatti con i suoi parenti o con la realtà.
Un versetto di un salmo sottolinea che i morti non possono rendere lode a Dio, rivolgersi a Lui e rendergli omaggio e questo è un elemento di grande tristezza.
Non bisogna mai dimenticare che questi sono solo accenni, tra l'altro molto incerti e forse esprimono la mentalità del tempo in cui sono stati scritti certi brani biblici o anche lo stato d'animo dell'autore.
Una formula biblica ricorrente che esprime il concetto della morte è questa: "si è riunito ai suoi padri" o anche "al suo popolo, al suo casato"; ma anche in questo caso non è chiaro se si voglia dire che dopo la morte avviene l'inumazione del cadavere che giacerà accanto ai cadaveri dei suoi parenti, oppure se si voglia dire che dopo la morte effettivamente esiste una possibilità di ricongiungersi ai propri cari.
Un altri elemento particolare ci è dato dalla figura di Enoch, che compare nel libro della Genesi, dove di lui è detto che "camminava con Dio, ma non fu più perché Dio l'aveva preso" (Gen 5, 24). Vedete che strano? Non è detto che Enoch morì, ma che non c'è più. Un po' come successe al profeta Elia, che è sparito su un carro di fuoco, rapito verso il cielo.
Un altro accenno particolare lo troviamo nel libro di Qohelet, dove l'autore, sempre un po' ironico, paradossale, estremo, pone questa domanda: "Chi sa se lo spirito dell'uomo è quello che sale in alto, mentre lo spirito dell'animale resta in basso, nella terra?" (Qo 3, 21). Ma non capiamo bene se questo "chi sa" vuole dire "colui che sa, che si rende conto" oppure "chissà se è proprio così".
Nel libro di Daniele troviamo altro materiale, forse più chiaro, ma lo dico sottovoce, perché capiamo già che il discorso è complicato, difficile da comprendere con certezza e chiarezza; anzi, quando sembra più chiaro è proprio allora che si complica.
Leggiamo verso la fine del libro: "Molti di quelli che dormono nella polvere della terra si risveglieranno: gli uni alla vita eterna e gli altri alla vergogna e per l'infamia eterna. I saggi (i preparati) risplenderanno come lo splendore (zohar) del firmamento; coloro che avranno indotto molti alla giustizia risplenderanno come le stelle per sempre" (Dan 12, 2-3).
Una frase molto bella, che però non so come spiegare. Così come tanti altri passi di questo libro, che rimangono oscuri.
Solo successivamente, nel periodo del secondo Tempio, cioè dal IV-V secolo prima dell'Era volgare fino alla distruzione del tempio, nel 70 dell'Era volgare, il concetto della morte e dell'immortalità diventa più elaborato, più chiaro. Anche a partire dal versetto di Daniele citato, comincia a formarsi l'idea che i morti, a un certo momento, vengono richiamati alla vita. Ma da qui nasce tutta una serie di problematiche. Ad es. come vengono richiamati? Tutti vengono richiamati? O solo gli Ebrei? Solo i giusti? Tutti problemi senza risposta.
Nella storia ebraica c'è stato un periodo in cui il problema sull'esistenza di una parte immateriale dell'uomo che sopravvive alla morte fisica è esploso; mi riferisco alla grossa polemica nata circa sue secoli prima dell'Era volgare e trascinatasi per circa 200 anni tra Farisei e Sadducei. Capiamo subito che si tratta anche di una polemica di carattere politico, visto che le due fazioni rappresentavano anche due movimenti politici contrastanti.
Da una parte i Farisei sostenevano l'esistenza di una parte immateriale dell'uomo, che sopravviveva alla morte fisica e grazie alla quale l'uomo, dopo la morte, nel momento in cui piacerà a Dio, viene richiamato in vita; i Sadducei, invece, negavano questo concetto nel modo più assoluto. E, come sempre avviene, entrambe le fazioni facevano ricorso alle Scritture per dimostrare le loro tesi.
Per es. in riferimento a Deuteronomio 32, 29: "Sono io che do la morte e faccio vivere",
i Farisei sostenevano che qui è affermata una risurrezione dopo la morte, cioè un intervento di Dio per far tornare in vita i morti. I Sadducei, invece, rifiutavano una tale interpretazione, affermando che qui il testo vuol semplicemente dire che a Dio appartiene il potere di dare vita e dare morte.
Un altro esempio è dato da 1 Samuele 2, 6: "Il Signore fa scendere allo Sheòl e risalire"
mentre i Farisei trovavano in questo testo una chiara affermazione della risurrezione, i Sadducei invece ipotizzavano la possibilità che qui si parlasse semplicemente dell'inumazione e del fatto che un cadavere potesse essere tratto fuori dalla terra da cause naturali.
Ancora un esempio, questa volta più velato, ci è dato dal cantico del mare, quello che cantarono gli Israeliti dopo il passaggio del Mar Rosso all'asciutto; in Es 15, 1 è detto: "Mosè e gli Israeliti presero a cantare…".
La traduzione italiana rende con un passato, ma il testo ebraico porta un futuro, cioè: "Mosè canterà". A questo fatto si appellavano i Farisei per dimostrare che Mosè dovrà risorgere e cantare il cantico del mare; mentre i Sadducei spiegavano la cosa con la tecnica poetica, che usa i tempi molto liberamente.
Vi riporto un passo talmudico: "Un Sadduceo si rivolse ad un Fariseo e gli disse: Guai a voi, colpevoli Farisei, che sostenete la risurrezione dei morti. Se il vivente muore, com'è possibile che colui che è morto riviva? Il Fariseo rispose: Guai a voi, colpevoli Sadducei, che sostenete che i morti non risorgono. Se quelli che non esistevano vengono alla vita, se Dio è capaci di creare la vita in esseri che prima non l'avevano, quanto più è ragionevole che torni a vivere chi già ha vissuto!"
E ora un fatterello della nostra tradizione. Accadde che un tale, abitante a Zipporì, che aveva perso un figlio, sedesse in compagnia di un Sadduceo. Un rabbi andò a fargli visita e, quando lo vide, sedette e si mise a ridere. Il padre in lutto gli domandò: "Perché ridi?" e quegli rispose: "Ho fiducia nel Signore del cielo che tu rivedrai tuo figlio nel mondo avvenire. Egli è andato a star meglio e verrà il giorno in cui lo rivedrai. Al che il Sadduceo disse: "Non ha già sofferto abbastanza quest'uomo, perché tu lo venga ad affliggere ancora? Perché illudi la gente con queste cose?".
Vedete, è una storiella, ma indica quanto fosse accanita la polemica. E addirittura la Mishnà, che è lo specchio dell'ideologia farisaica, arriva ad affermare che chi nega l'esistenza dell'anima immortale non ha diritto al mondo futuro.
Ma torniamo ancora al Talmud. C'è un passo interessante, che presenta due personaggi emblematici: Antonino, che rappresenta il romano preparato, istruito, identificato, a volte, addirittura con Marco Aurelio e rabbi Iehudà, nientemeno che l'autore della Mishnà. Dunque Antonino si presenta a rabbi Iehudà chiedendogli in quale momento l'anima viene impiantata nell'essere umano, se nell'atto stesso del concepimento oppure durante la formazione dell'embrione. Rabbi Iehudà rispose che ciò avviene successivamente al concepimento. Ma Antonino, a questo punto, pone la domanda: "E' possibile che un pezzo di carne non si corrompa senza venir salato?" e il rabbi: "Antonino, mi hai insegnato qualcosa! La carne senza spirito non può sopravvivere, ma va in putrefazione".
Ancora. C'era la credenza che l'era messianica non sarebbe giunta prima che tutte le anime non ancora nate avessero trascorso il periodo della loro esistenza terrena. Dio ha creato un certo numero di anime destinate a congiungersi a un corpo; e finché ognuna di queste anime non ha trovato il suo proprio involucro, non può avvenire la fine del mondo. Vi cito il testo della Tradizione: "Il figlio di Davide, il Messia, non verrà fino a tanto che non saranno giunte sulla terra tutte le anime create da Dio".
Oggi l'ebraismo in genere ha accolto la posizione favorevole all'esistenza dell'anima nel corpo, tanto che la stessa preghiera quotidiana porta ad esprimersi in questo senso. Appena alzato ogni Ebreo comincia la sua giornata con questa preghiera: "Benedetto sei Tu, Signore, Re del mondo… ti ringrazio perché hai creato un'anima dentro di me e la conservi in me ed ora, la mio risveglio, posso constatare che essa è tornata in me". C'era infatti la credenza che il sonno fosse una perdita di coscienza molto simile alla morte, per cui il risveglio diventa il momento in cui si torna a prendere coscienza della parte immateriale che è in noi.
E anche la preghiera delle 19 benedizioni, che noi ripetiamo tre volte al giorno e che è la preghiera centrale del popolo ebraico, ci porta a ringraziare Dio che fa rinascere i morti, mantenendo la sua promessa a coloro che giacciono nella polvere.
Questo non è un dogma per noi Ebrei; anche se uno non credesse in queste cose, continuerebbe ad essere Ebreo. Però è ormai patrimonio di tutti che una parte dell'essere umano continua a vivere anche dopo la morte terrena.
Lo stesso Maimonide, che ci ha regalato un'opera monumentale, che contiene anche i famosi tredici articoli di fede, una specie di "summa" dei cardini ideologici dell'ebraismo, afferma che Dio ha creato l'anima ed essa sarà richiamata in vita quando Lui vorrà.
Se il grande Maimonide ha messo per iscritto un'affermazione così perentoria, suscitando lo sdegno di molti, un altro filosofo, Joséf Caro, si è espresso in modo un po' più blando, affermando, sì, l'esistenza e la sopravvivenza di una parte spirituale dell'essere umano, che verrà un giorno richiamata in vita, ma senza esprimersi in maniera così perentoria e dogmatica.
E' chiaro che il concetto della sopravvivenza dell'anima richiama tutta la tematica del mondo venturo, di come sarà l'al di là. La Mishnà, in maniera molto bella, afferma che questo mondo è come un vestibolo che precede il mondo a venire. "Prepárati nel vestibolo, per entrare nella sala". Questo fa intendere che tutta la nostra vita non è altro che una preparazione, per entrare nella sala.
Ancora alcuni aneddoti molto belli. Rabbi Ioséf, figlio di rabbi Oshià, era malato ed entrò in coma; al suo risveglio il padre gli chiese cosa avesse visto e lui: "Un mondo che è il contrario di questo: coloro che qui sono in alto, là sono in basso e viceversa". Allora il padre rispose: "Figlio mio, hai visto un mondo finalmente giusto".
E riguardo alle sofferenza e alle privazioni di questa terra rabbi Iehudà diceva che chi accetta le delizie di questo mondo, sarà privato delle delizie del mondo avvenire, mentre chi rifiuta le delizie di questo mondo, otterrà le delizie del mondo futuro. Come è attesta anche da una specie di proverbio molto conosciuto, secondo il quale nessuno ha diritto a due tavole: se si mangia bene in questo mondo, non si potrà mangiar bene nel mondo futuro.
E' la sofferenza, la privazione, infatti, che ci permette di conquistare i beni futuri, come troviamo in questo detto: "Tre doni preziosi il Santo - benedetto egli sia - dà a Israele e tutti li dà solo a mezzo della sofferenza: la Torah, la Terra di Israele e il Mondo avvenire".
Vorrei passare, ora, a considerare il concetto della Geenna nella nostra tradizione; nonostante l'importanza dell'argomento, ci troviamo, ancora una volta, di fronte a una certa frammentazione, non abbiamo un sistema di pensiero ben organizzato, ma solo degli accenni qua e là. Cerchiamo di vederli.
La Geenna è il luogo in cui vanno i cattivi, i reprobi, mentre per i buoni c'è il Gan Eden. Fermiamoci un attimo sul termine lessicale: Geenna in ebraico è Ghe hinnàm, oppure Ghe ben Hinnòn.
Ancora oggi a Gerusalemme c'è la valle cosiddetta del "figlio - ben - di Hinnòn". Ma nessuno sa con certezza chi fosse questo personaggio che ha dato il nome alla valle. Si dice che questa valle raccogliesse l'immondizia degli abitanti delle collinette che delimitavano la valle, da una parte e dall'altra. Addirittura era nato un modo di dire particolare usato dalle mamme che volevano rimproverare i loro bambini e dicevano loro, minacciandoli: "Se non ti comporti bene, ti butto nell'immondizia, in pattumiera; mi disfo di te, perché non so cosa farmene di un tale figlio!". Da qui poi si è passati a formarsi il concetto di questo luogo sporco, questo immondezzaio, che doveva raccogliere tutte le persone che non si erano comportate bene, i malvagi, gli empi, che non servivano a nulla di buono. Quindi il concetto dell'inferno comprende più questo aspetto di inutilità che di sofferenza: lì vanno a finire tutte quelle persone che non servono proprio a niente.
Ancora oggi, nella nostra mentalità ebraica, nel nostro credere, c'è questa convinzione che l'anima di un individuo che si sia comportato male rimane inutilizzata per un certo periodo di tempo, che però non può mai superare i 12 mesi; dopo questo tempo Dio interviene e perdona il peccato, anche se si trattasse della massima serie di peccati che uno possa commettere, anche se si trattasse dell'essere più spregevole di questa terra.
Noi abbiamo una norma secondo cui i parenti di un defunto non possono prolungare il lutto oltre gli 11 mesi, perché altrimenti sembrerebbe che si voglia applicare il massimo della pena.
Il Talmud cerca di dare risposta all'interrogativo su che cosa facciano le anime dei defunti nella Geenna. Qualcuno dice che stanno in mezzo al fuoco, mentre qualcun altro dice in mezzo alla neve.
Tra gli insegnamenti che ci vengono impartiti uno è particolarmente interessante: tre cose possono evitare la Geenna: lo studio della Torah, la preghiera e la circoncisione.
Ma tra i Maestri c'è anche chi nega l'esistenza della Geenna, come rabbi Simòn, figlio di Lakish, che dice: "Il Santo - benedetto Egli sia - farà uscire il sole dalla sua custodia e annerirà il mondo con i suoi raggi ardenti; così i malvagi saranno puniti e i giusti salvati".
Quindi lui pensa a una punizione e a un premio dati già in questo mondo; non c'è bisogno che le anime vadano nell'al di là.
Questo pensiero ci aiuta ad entrare in un altro argomento, che è quello della retribuzione, della punizione.
La tesi di fondo sembra essere questa: verrà il momento in cui i reprobi saranno puniti già qua con un intervento naturale da parte di Dio e i giusti saranno premiati. Potrebbe essere il sole, che a un certo momento esploderà e annerirà, brucerà tutti i malvagi; mentre sorgerà una luce che sarà fonte di salvezza per tutti i buoni.
Questo ci porta a prendere in considerazione il tema della creazione della luce. Sapete che il racconto di creazione presentatoci nel primo capitolo della Genesi ci dice che per prima cosa Dio creò la luce. Sì, ancor prima degli astri, Dio creò la luce. Ma se gli astri non c'erano, quella luce che cos'era? E' una luce spirituale, che Dio ha creato e messo da parte, tenuta in serbo per premiare con essa i buoni. Quindi esiste da qualche parte dell'universo questa luce primordiale, che non corrisponde alla luce come l'intendiamo noi.
Abbiamo parlato della Geenna, ma ora anche qualche breve accenno al Gan Eden. I nostri maestri dicono che non si sa dove sia esattamente il giardino di Eden, nel quale andranno i buoni. Nel Talmud un maestro afferma che se il Gan Eden è in Terra di Israele, allora il suo ingresso si trova a Bet Sheàn, una località non lontana dal Lago di Tiberiade; se invece è in Arabia, il suo ingresso si trova a Bet Gherem, località non identificata; e se invece è in Mesopotamia, il suo ingresso si trova a Damasco.
Le fonti talmudiche offrono alcuni accenni figurati al Gan Eden, per esempio assimilandolo a un meraviglioso banchetto. E qui si inserisce la fantasia popolare, che afferma che la vivanda servita in questo banchetto è la carne del Leviatàn. Cos'è il Leviatàn? La Bibbia ce lo presenta come una specie di enorme mostro marino (Giobbe 40, 25 - 41, 26). E ancora la Tradizione dice che Dio lo avrebbe ucciso per dare da mangiare carne al popolo nel deserto. Come sempre, voi non dovete prendere le cose così come ve le dico io, ma dovete approfondire, interrogarvi.
Ancora, si dice che in Gan Eden ci sia un ordine, delle posizioni precise occupate dalle persone. Per esempio i martiri, coloro che hanno dato la vita per i proprio ideali, occupano la posizione più elevata; poi, subito sotto, stanno coloro che sono morti annegati; ancora più sotto si trovano rabbi Iochanàn ben Zacchai e i suoi discepoli, perché questo maestro era famoso per la sua sapienza; in quarta posizione stanno coloro sui quali era scesa la nube per ricoprirli, quando Dio diede a Israele le Dieci Parole sul Sinài. Sotto, in quinta posizione, stanno i penitenti ed è interessante sottolineare che a proposito di questa posizione è affermato che qui non possono stare i giusti perfetti, a dire che chi si pente gode di un piacere spirituale ancora maggiore; chi ha assaggiato il male ed ha saputo ritrarsene, ha più meriti.
In sesta posizione stanno i celibi, che non hanno conosciuto il peccato e infine in settima posizione troviamo i poveri.
A conclusione di questa panoramica su Geenna e Gan Eden, vorrei citarvi un bel passo del Talmud:
"Coloro che sono nati, sono destinati a morire e i morti ad essere rimessi in vita e i viventi ad essere giudicati, a conoscere e far conoscere e a rendersi coscienti che Egli, Dio, è il Fattore primo, il Creatore, Colui che discerne e giudica; è il testimone, colui che chiama in giudizio e che giudicherà nell'al di là. Davanti a Lui non c'è ingiustizia, non c'è dimenticanza, non ci sono riguardi personali o accettazioni di doni a scopo di corruzione.
E tutto quello che avviene nel mondo procede secondo un piano. Ma la nostra immaginazione non deve lasciarci sperare che la tomba sarà per noi un rifugio, perché nostro malgrado siamo stati creati, siamo nati, nostro malgrado viviamo e moriamo e nell'al di là dovremo rendere conto e ragione dinanzi al supremo Dio, il Re dei re, il Santo, benedetto Egli sia".
Ancora una parola sul problema dell'escatologia in generale.
Cosa succederà alla fine dei tempi, secondo la visione ebraica? Non lo sappiamo, non abbiamo risposte precise. Nei testi biblici, soprattutto nei profeti, ricorre molto spesso l'espressione "il dopo dei giorni", ma non sappiamo di preciso come tradurla, come intenderla. Forse potrebbe essere "la fine dei giorni", oppure "in un tempo lontano", oppure si intende quello che avverrà dopo che l'universo avrà compiuto il suo ciclo di vita.
Possiamo dire che ci sono due filoni di interpretazione rispetto a questa espressione: da una parte chi l'intende come un futuro lontano e dall'altra chi la intende come un futuro vicino. Anche rispetto alle profezie che troviamo nel testo sacro, qualcuno dice che esse rispecchiano la visione di qualcosa che accadrà in un tempo molto prossimo nella vita del profeta e qualcun altro dice il contrario, cioè che il profeta sta parlando di qualcosa che avverrà in un tempo molto lontano.
Ma questo "dopo dei giorni" che cos'è? Bisognerebbe rifletterci su approfonditamente, anche perché a volte è reso con "la fine", altre con "il tempo posteriore", altre ancora con "il tempo del Messia" o con la "risurrezione dei morti", o addirittura col "regno dei cieli", "regno dell'Onnipotente". Insomma, vedete, quale grande confusione di crea. L'unica cosa chiara è che si vuole parlare di un tempo, vicino o lontano, in cui verrà il Messia e instaurerà la fine dell'idolatria nel mondo, per cui tutti gli uomini riconosceranno l'esistenza di Dio. Sì, come dice il profeta Isaia: "La conoscenza del Signore riempirà il paese come le acque ricoprono il mare" (11,9). Cioè la consapevolezza dell'esistenza di Dio sarà un qualcosa di connaturato, come l'acqua all'acqua; tutte le fibre di tutti gli uomini sapranno che c'è il Signore, Dio di tutta la terra.
Tutto questo è molto bello e infonde grande speranza, però devo anche attirare la vostra attenzione sul fatto che spesso i testi profetici che parlano del "giorno del Signore", affiancano ad esso elementi alquanto terribili, quali l'oscurità, il caos e la confusione; e usano proprio la stessa espressione che ritroviamo in Genesi, al principio, quando la terra era informe e caos.
Forse che la fine dell'idolatria sia preceduta dal ritorno del caos cosmico primordiale, da cataclismi?
Quindi, vedete?, occorre compiere questa fatica mentale e spirituale di mettere insieme il concetto di ricostituzione dell'ordine cosmico, del ritorno di tutta l'umanità al vero Dio, di pace, di tranquillità col concetto di disordine, caos, cataclisma.
E, guarda caso, tutte le volte che Israele si è trovato a vivere un momento storico particolarmente difficile, di persecuzione, di sterminio, è tornato a riflettere su questo tema, ha avuto bisogno di pensare al futuro, all'era messianica della liberazione; cosa che invece, in tempi tranquilli, rimane un po' più in sordina.
Per es. nel 135, quando il popolo ebraico aveva ormai perso il tempio e subiva la forte oppressione romana, nacque un movimento di rivolta, capeggiato da un certo Bar Kochbà e sostenuto dal grande rabbi Akivà, il quale affermava la necessità di opporsi al potere romano perché era molto vicina la venuta del Messia, che lui identificava con questo Bar Kochbà. Da parte sua, invece, l'altro grande maestro rabbi Oshajà, dissentiva e arrivò a dire a rabbi Achivà: "L'erba salirà su tuo sepolcro, ma il Messia non sarà ancora venuto".
Vi dico queste cose per farvi capire come nascesse spontaneo nel popolo questo movimento di speranza, questa apertura alla visione spirituale del giorno del Messia, proprio perché era nella sofferenza, nella prova.
Ma lungo tutto il corso della storia di Israele si è ripetuto questo fenomeno. Quando in Spagna gli Ebrei erano cacciati e perseguitati, tanto che sembra che crolli tutto il mondo attorno a loro, nascono con forza dei movimenti mistici, che tendono a far rinascere la speranza in un futuro migliore.
Ma quando verrà la fine dei tempi, il giorno del Messia? Come accade ancor oggi, da sempre c'è stato il tentativo di dedurre dal testo biblico una data precisa. A volte queste operazioni sono state fatte senza alcuna serietà, altre volte, invece, con grande profondità. Per es. le correnti mistiche sorte in Spagna nel XV-XVI sec. ponevano molto l'attenzione su questo mistero e troviamo conteggi precisissimi per arrivare ad indicare il giorno in cui il mondo sarebbe stato ricostituito.
Ma i Maestri si oppongono a questo tipo di ricerche, ritenendole non solo inutili, ma anche dannose, perché creano solo delle illusioni nella gente e poi c'è il grosso rischio di manipolare il testo biblico, che, a questo riguardo, è davvero incomprensibile. In fondo, tutti i calcoli fatti nel passato si sono dimostrati falsi, sono venuti meno; tutti i tentativi possibili sono già stati fatti; non rimane che attendere in pace, comportandoci secondo i comandi di Dio, nella conversione, nella penitenza, rimanendo sulla strada del bene, compiendo buone azioni.
Insomma, la fine arriverà quando a Dio piacerà.
Dice rabbi Jochanàm: "Guai a chi tenta di fissare la venute dei tempi finali, perché così facendo si sottraggono elementi di fede al popolo".
C'è una preghiera, che noi recitiamo tre volte al giorno e che vorrei proporvi a conclusione di questo mio intervento; in essa si trovano contenuti un po' tutti i temi di cui sono andato parlandovi.
E' una preghiera molto antica, che qualcuno attribuisce addirittura a Giosuè, ma senza fondamento e qualcun altro a un autore ignoto, che la compose a Blois, in territorio tra Francia e Germania, durante un progrom al tempo delle crociate. Un gruppo di Ebrei, che si rifiutava di convertirsi forzatamente al cristianesimo, asserragliati in una casa, vennero poi bruciati e mentre le fiamme salivano al cielo, qualcuno ha udito questa preghiera, che, nella sua parte finale, suona così:
"Per questo noi confidiamo in te, Eterno Dio nostro, di poter vedere presto la gloria della tua forza, per togliere dalla terra tutte le iniquità e tutti gli idoli, che devono essere distrutti per costituire il mondo nel Regno dell'Onnipotente (ecco l'espressione particolare "malchùt Shaddài" e tutti gli esseri dotati di carne riconosceranno il tuo Nome e pregheranno il tuo Nome e cesseranno di esistere tutti i malvagi, perché tutti gli uomini di questo mondo riconosceranno che solo a te si deve inginocchiarsi e solo in te bisogna giurare e davanti a te, o Eterno Dio nostro, tutti si inginocchieranno e porgeranno omaggio alla grandezza del tuo Nome".
Mi pare che in queste poche parole siano condensate le speranze che il popolo ebraico coltiva in se stesso per i giorni finali, ultimi, i giorni del Messia.
(Conferenza tenuta a Forlì il 28 ottobre 1993)