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Educazione e formazione del bambino ebreo
(Rav Luciano Meir Caro)
Partiamo da alcune considerazioni abbastanza veloci sul salmo 119, che da alcuni è considerato il testo base per la formazione e l'insegnamento del bambino ebreo. Per quel che mi riguarda, questo tipo di tradizione mi lascia abbastanza perplesso.
Comunque sia, questo salmo è il più lungo di tutto il Salterio e comprende ben 176 versetti; è un acrostico, cioè è diviso in tanti settori, composti da 8 versetti ciascuno, ognuno dei quali comincia con una lettera dell'alfabeto. Questo ha fatto pensare che il salmo sia stato utilizzato di preferenza per offrire ai bambini i primi rudimenti dell'apprendimento, facendo loro imparare a memoria una serie di versetti che cominciano con la stessa lettera.
Altre tradizioni affermano, invece, che bisogna insegnare l'alfabeto ai bambini partendo dalla Torah, cioè dal Pentateuco e non dal Salterio. Ma anche questo potrebbe non rispondere a verità.
Abbiamo già accennato, secondo una notizia del Talmud, che nelle antichissime scuole la prima cosa che veniva insegnata ai bambini era il libro del Levitico; fra l'altro un libro straordinariamente difficile, che parla delle leggi di purità, delle normative per i sacrifici, ecc., già difficili per un adulto, figuriamoci per un bambino. Sarebbe ben più logico partire da qualcosa di più interessante.
Se toccasse a me, partirei dalla torre di Babele, dall'arca di Noè, da Abramo, da Eva e il serpente, insomma qualcosa che susciti la fantasia.
Invece è stato trasmesso di cominciare proprio dal Levitico. Perché? Qual è l'insegnamento che soggiace a un tale suggerimento? Prima di tutto perché si pensa che quando i bambini cominciano a frequentare la scuola, conoscano già il testo della Torah e quindi che sia inutile star lì a raccontare la creazione, i patriarchi e tutto il resto. L'altro elemento è che siccome il libro del Levitico parla di purità rituale, è giusto che i bambini, che sono puri, comincino la loro educazione con le norme sulla purità. Quasi a dire che noi adulti leggiamo in forma in qualche modo inquinata le leggi sulla purità, perché noi abbiamo ormai perso la nostra purezza.
Un altro elemento è costituito dalla norma ebraica che dice che è proibito insegnare qualche cosa, soprattutto nel campo della normativa, se abbiamo la sicurezza che la persona alla quale viene insegnata, non la mette in pratica. Da dove parte questa considerazione? Dico un'ovvietà. Quando noi commettiamo un errore, un peccato, ci sono due modalità con cui possiamo compiere questa azione sbagliata: la modalità volontaria e quella involontaria. Ci sono degli errori che noi commettiamo involontariamente, per leggerezza oppure senza conoscere; e ci sono altre cose che noi facciamo deliberatamente. Orbene, nell'ambito del precetto di amare il nostro prossimo come noi stessi, dobbiamo fare in modo che il nostro prossimo non peggiori la sua situazione per causa nostra. Faccio un esempio. Ci sono delle norme; se io so già che una data norma, voi non la metterete in pratica, io devo astenermi dall'insegnarvela, perché se voi la trasgredite senza saperlo, avete fatto una trasgressione involontaria e quindi siete perdonati più facilmente, ma se trasgredite sapendo che è proibito, la cosa è peggiore. Ma sono io che ho vi ho indotto a un peggioramento della vostra situazione.
E ancora, nell'ambito di quell'altro versetto biblico che dice: "Non mettere un inciampo davanti al cieco". Se qualcuno è cieco, cioè se non riesce a capire qualche cosa, non lo indurre maggiormente in errore. Tutto questo insegnamento è bello, ma anche pesante, nel senso che ci carica di responsabilità.
Ho voluto dire tutto questo per esprimere le mie grosse perplessità sul fatto che il salmo 119 fosse adoperato per insegnare ai bambini.
Se devo dirvi la mia esperienza personale, devo confessare di essere un caso eccezionale, nel senso che io ho cominciato a imparare qualche piccola cosa, ma in maniera molto molto vaga, all'età di quattro, cinque anni a casa mia; mio papà era molto religioso e mi insegnava delle formule di preghiera e quindi le prime nozioni le sentivo da lui. Poi, quando è venuta la guerra con la persecuzione, io ho frequentato solo le prime settimane della prima elementare e poi mi hanno sbattuto fuori; allora avevo 6 anni. Sono potuto tornare a scuola solo a 10 anni, quando era finita la guerra. E a quel tempo io non sapevo né leggere né scrivere; nessuno me l'aveva insegnato. Mi hanno messo in quarta elementare, non perché fossi a quel livello, ma solo per questione di età. In quell'occasione una mia insegnante, per la quale io ho ancora una grande venerazione, mi ha messo in condizione, nel giro di poche settimane, di studiare tutto quello che gli altri bambini avevano fatto dalla prima elementare fino ad allora. Dunque, la guerra è finita nell'aprile del '45 e io a giugno ho dato gli esami d'ammissione alla prima media. Quindi ho cominciato la mia preparazione dagli 11 anni in poi, a una scuola ebraica.
Lasciamo la mia esperienza personale e torniamo a noi.
Questo salmo 119, che io vi invito a leggere con attenzione, perché è molto bello, parla molto frequentemente di studio, ma non tanto di studio intellettivo, quanto piuttosto di lettura e riflessione sul testo biblico per imparare come ci si deve comportare. Da' degli insegnamenti di carattere etico morale. Non è tanto la questione didattica come si vuol far credere.
Per esempio, leggo a caso: "Volesse il Cielo che le mie strade fossero così dritte e salde da concedermi di osservare le tue norme". L'autore si ripromette di avere l'aiuto di Dio per osservare le sue norme, non per studiare. "Allora non mi vergognerei osservando tutti i tuoi comandi; ti rendo omaggio con onestà di cuore nell'apprendere le tue giuste leggi". Il discorso va avanti sempre così. L'autore afferma in vari modi quanto sia bello apprendere le norme di Dio per metterle in pratica.
Un'esercitazione che possiamo fare è quella di individuare i vari modi con cui l'autore indica il testo della Bibbia, cioè come chiama la Parola di Dio. Per esempio è molto frequente trovare il termine derek, la strada; oppure edùt, la testimonianza; oppure hok, lo statuto; mitzvà, la norma; mishpàt, la legge; emunà, la fedeltà. Queste cose sono messe così casualmente per questione di metrica, oppure l'autore, adoperando ognuna di queste parole, si riferisce a qualcosa di particolare? Se volete prendere i commenti più autorevoli, troverete le più svariate interpretazioni. Io mi considero, in un certo senso, un po' iconoclasta, perché non me la sento di accettare le cose secondo un'unica interpretazione, come se fosse la sola verità. Per es. bisogna sempre tener conto che anche i significati delle parole mutano col passare del tempo.
Ma torno al concetto che esprimevo all'inizio: se io dovessi scegliere un testo guida per insegnare ai bambini, non prenderei sicuramente questo salmo.
Leggo ancora a caso. "Mantieni al tuo servo la tua promessa, che gli hai dato come premio del tuo timore. Liberami dalla vergogna che io tanto temo, perché le tue leggi sono buone". Sono cose particolarmente attraenti per un bambino? Intanto dubito molto che le capisca e anche se le capisce, non gliene importa niente.
Vorrei dire due parole sulla didattica caratteristica del mondo ebraico nei confronti dei bambini, prescindendo da questo testo particolare del salmo 119.
Devo subito dire che purtroppo c'è una differenza abissale tra quello che si faceva una volta e quello che si fa adesso. Una volta c'era molta più attenzione nei confronti dell'educazione dei bambini, mentre adesso demandiamo tutto alla scuola. Salvo poi criticare la scuola e gli insegnanti.
In origine l'educazione dei bambini era considerato un dovere primario dei genitori. Non tanto considerato dalla Legge, ma proprio sentito dai genitori. Poi trova anche questa esplicazione nella norma che dice che dovere dei genitori è dare un'istruzione ai figli, non solo dal punto di vista didattico, ma anche insegnare ai propri figli a nuotare. Vi sembrerà sciocco, ma vuol dire mettere i figli in condizione di salvarsi da un eventuale pericolo. Se sto vicino al mare, gli insegnerò a nuotare; se sto in montagna, gli insegnerò a fare attenzione lungo i sentieri. Insomma, devo insegnare loro a difendersi dai pericoli incombenti.
Fino a qualche decennio o secolo fa l'istruzione era riservata ai benestanti e se andiamo indietro di qualche millennio, non esistevano neanche le scuole e perciò i benestanti provvedevano a dare ai figli un precettore. L'acculturazione, anche solo per leggere e scrivere, era riservata ai ceti sociali più elevati. Nel mondo ebraico, invece, l'analfabetismo è stato praticamente sconosciuto.
Nel libro dei Giudici si racconta di una guerra in corso e dei personaggi volevano sapere chi erano i capi del campo avversario. Allora ferma il primo bambino che trova per strada e gli chiede di scrivergli i nomi dei capi della sua città e quello glieli scrive. Con naturalezza l'ha chiesto a un bambino, perché era scontato che sapesse scrivere. Si partiva dal presupposto che i bambini, anche piccoli, erano in condizione di capire e di scrivere.
Un passo talmudico sostiene che i bambini ebrei conoscono a memoria il testo biblico, quanto meno il testo della Torah. Un maestro dice che se ci si rivolge a un bambino della città e gli si chiede dove si trovi un certo versetto, lui è in grado di rispondere con la massima naturalezza e facilità, quasi con maggior facilità di quanto sappia dire il nome del babbo e della mamma. Questo è un vanto per noi, ma nasce da una situazione di grande attenzione verso l'educazione dei bambini, che devono essere messi in grado di leggere e scrivere il più presto possibile.
E' vero che spesso si adoperavano i testi delle Scritture per insegnare ai bambini a leggere e scrivere, che diventavano degli strumenti scolastici.
Fino intorno al 1700 - parlo in modo molto generico - l'aspirazione delle madri ebree era che la figlia sposasse un cosiddetto 'allievo sapiente'. La parola 'sapiente' non è applicabile a nessuno, ma siamo tutti docenti e discenti. L'ideale dell'essere umano è quello di saper studiare bene.
Oggi le cose sono un po' cambiate, ma fino a qualche tempo fa si guardava veramente più a queste doti di sapienza, piuttosto che ai beni materiali.
Anche noi ebrei ci siamo lasciati molto assimilare e ne paghiamo lo scotto, perché molti dei problemi del mondo ebraico vengono proprio da questa assimilazione.
Trasversalmente negli ultimi due millenni e mezzo esisteva un unico termine che indicava la sinagoga e la scuola. Si diceva: "Andare a scola" e si intendeva andare alla sinagoga, dove si pregava, ma anche si studiava; era la "casa dello studio". Adesso quella che era la scola è diventata il tempio, dove si va a pregare.
Inoltre, fin dai tempi immediatamente post-biblici, nei quali si comincia ad intravedere una normativa che viene proposta alla collettività, si stabiliscono delle norme che dicono che chi fa parte di una collettività, piccola o grande che sia, dal momento che sono passati trenta giorni dal suo soggiorno in una certa città o villaggio, deve contribuire alle spese per la costruzione di una scuola e il mantenimento dei maestri. Anche se uno si ferma in una città per un periodo, magari per lavoro, deve contribuire in questo modo.
Quando si fonda una città nuova, la prima cosa che viene richiesta agli ebrei è la costruzione di una scuola, che ci siano i fondi o no; alla scuola può essere annessa una sinagoga o no. Poi si deve provvedere alla costruzione di un mikvé, cioè il bagno rituale che serve a mantenere una vita coniugale secondo la normativa ebraica e successivamente un cimitero. Ma il primo impegno è quello di costruire una scuola e per far questo si può perfino vendere una sinagoga. La miglior preghiera in senso assoluto è quella di studiare e di mettere in condizione di studiare anche i poveri.
Di tutto questo si trova traccia nel Deuteronomio, al cap. 6, dove è detto: "…le ripeterai ai tuoi figli". Quindi i genitori prima di chiunque altro hanno l'obbligo di favorire l'istruzione dei figli e poi tutta la comunità interviene per aiutare in questo senso.
Più volte la Bibbia dice: "Ripeterete queste cose ai vostri figli". E va sottolineato che la didattica nei confronti dei figli deve essere un qualcosa di continuo, in tutti i momenti della giornata, quando ci si alza, quando si esce, quando si rientra.
Nel libro dei Proverbi c'è un panegirico, un'esaltazione dell'educazione che si deve dare ai figli. Fra le altre cose si dice che chi è troppo tollerante nei confronti del figlio ribelle, che non ha voglia di studiare, è come se lo seppellisse, nel senso che non gli consente di vivere. Pare che originariamente questo compito di insegnare fosse demandato ai membri della tribù di Levi; ma per altri questo compito spettava ai figli dei profeti.
E' interessante soffermarsi un attimo sulla terminologia. Nelle fonti immediatamente post-bibliche l'insegnante viene chiamato il melamméd, cioè 'quello che insegna', oppure moré, 'maestro', oppure medìn, 'colui che capisce'. Notate che l'etimologia della parola moré ha la stessa radice della parola Torah, insegnamento, che è iarà, il cui significato etimologico primo è quello di 'scagliare le frecce'; significa prendere un corpo e farlo penetrare con la violenza in un'altra parte. Questo è il compito dell'insegnante, che deve far penetrare nella testa del suo allievo determinate cose, magari con la forza.
Era anche prevista una punizione per chi non voleva impegnarsi a dare l'istruzione ai figli. Si operava una specie di ostracismo.
La mishnà dice che appena il bambino comincia a parlare, dopo le prime paroline smozzicate, come papà, mammà, ecc., il padre gli deve parlare in ebraico e gli deve insegnare la Torah. E se il padre non lo fa, sarebbe meglio che lo seppellisse, perché è come se avesse un morto, uno a cui lui non trasmette vita.
Per quello che noi sappiamo, il primo istitutore delle scuole in Israele è stato un tale di nome Shimòn ben Shetach e siamo a cavallo del I sec. dell'era volgare, contemporaneo a Gesù. Questo tale istituisce le scuole pubbliche obbligatorie per tutti i bambini di età inferiore ai 15 anni.
Riguardo alle bambine, le cose sono problematiche, perché non c'era proibizione di dare l'istruzione anche a loro, ma la cosa non era corrente, praticata.
Nel II sec. e.v., quando era già cominciata la dispersione e quindi la popolazione ebraica era anche numericamente povera, si parla già di 480 istituzioni scolastiche presenti a Gerusalemme, una città che, a dir tanto, contava 20.000 abitanti. Forse 480 è un numero un po' iperbolico, ma sta a dire che praticamente in ogni isolato c'era una scuola. Ovviamente erano divise in vari livelli.
Da alcune descrizioni che abbiamo, sembra che per le scuole dei bambini le cose andassero così: in mancanza di un edificio scolastico, il maestro faceva venire i bambini a casa sua, ma si faceva molta attenzione a che ogni maestro non avesse più di 25 allievi. Se ne aveva di più, doveva prendersi un aiutante e se diventavano più di 40, bisognava dividere la classe. Ed era stabilito fin dall'inizio che il maestro non dovesse essere stipendiato, ma doveva pagare lui, perché insegnare ai bambini era un merito straordinario e quindi non è possibile pensare di dargli una retribuzione. Però, siccome tutti devono campare, gli si dava non uno stipendio, ma una retribuzione per il tempo impiegato. Si faceva questo ragionamento: un tale è adatto a fare il maestro e glielo si fa fare, ma poteva fare anche l'idraulico, il ciclista, o altro; allora, una persona media quanto guadagna? In base a questo si calcola una retribuzione anche per il maestro, ma non per quello che fa, ma per quello che non fa, perché non ha tempo.
Un altro elemento interessante è quello riguardante le scuole per gli adulti. Erano congegnate in modo tale che le lezioni venissero fatte fuori dall'orario di lavoro: o al mattino molto presto, prima di andare a lavorare o la sera. Si trattava generalmente di grandi anfiteatri, dove in mezzo ci stava l'insegnante e in circolo seduti i più anziani, e nei cerchi più esterni i più giovani, in piedi.
Per quanto attiene sia ai bambini sia agli adulti c'era il sistema delle zugòt, le coppie. Il modo giusto di insegnare era questo: l'insegnante spiega qualche cosa, poi divide gli scolari in coppie e devono studiare insieme, confrontandosi. Perché insieme si studia meglio; si è provocati e gli errori vengono individuati meglio e poi è un modo per stabilire delle amicizie.
Ci sono anche indicazioni riguardo il modo di insegnare. Uno dei modi didattici è quello della 'strada breve', cioè l'insegnante deve insegnare le cose principali, mentre per i dettagli devono ingegnarsi gli allievi, se gli interessa. L'importante è non annoiare gli allievi, perché così li si allontana dalla materia.
Tutte le volte che viene proposto un testo, l'insegnante deve prima verificare che il testo che egli offre allo studio degli allievi non abbia degli errori. Quando insegnavo alla scuola ebraica di Torino, negli anni '50, esistevano dei libri di preghiera che si usavano a scuola, compilati dal mio illustre maestro il rabbino Dario Di Segni, per il cui quale ho una venerazione eccezionale. Una sua caratteristica era questa: gli veniva un'idea e voleva subito realizzarla, senza doverci perdere del tempo. Quindi io mi arrabbiavo, perché toccava a me correggere le bozze dei suoi libri; è lui che ha fatto pubblicare la traduzione della Bibbia in 4 volumi, i libri della liturgia, ecc. Le prime edizioni che lui ha fatto di libri liturgici, avevano la media di 30 errori per pagina.
Di fatto moltissimi dei bambini della scuola di Torino, per anni hanno pregato con dei testi sbagliati, perché avevano quei libri e gli insegnanti non erano molto preparati per individuare gli errori. Una massima dei padri mette in guardia gli insegnanti sul loro modo di parlare, perché da come parlano loro, gli allievi possono abbeverarsi alla fonte del loro insegnamento e rimanerne avvelenati. E' detto in forma eclatante, ma ha il suo significato.
E già 2000 anni fa c'era questa attenzione particolare alla correttezza dei testi di scuola.
Tutto questo riguardava un tipo di insegnamento che è durato fino a circa il Medio Evo, dove si insegnavano soprattutto le materie ebraiche, cioè la lingua ebraica, la letteratura, soprattutto la Bibbia e testi o di morale o codici civili, come il Talmud e così via. E si pensava che un bambino, studiando la Bibbia e il Talmud avesse già un'idea sufficiente per affrontare la vita.
Dal Medio in poi si comincia a spaziare, ad ampliare le materie di studio, introducendo ad es. l'algebra, l'aritmetica, la geometria, la storia, ma facendo attenzione a non presentare le materie diciamo estranee alla dottrina ebraica non prima dei 18 anni, perché prima di allora non si ha la capacità di vagliare bene le cose. Un certo Ibn Aknin, allievo prediletto del Maimonide - siamo nel 1200 - ha elaborato un programma di studi per i giovani dai 16 anni in poi, che è pervenuto fino a noi. Il presupposto è che uno a 16 anni sa già tutto quello che è necessario, cioè la Bibbia, la Mishnà, il Talmud, ma insieme a questo egli propone lettura e scrittura dell'ebraico e della lingua del paese dove uno vive, poi la filosofia, la scienza e si intendeva soprattutto e astronomia e finalmente musica e poesia. Queste cose sono state applicate a Medina, dove c'era una grossa comunità ebraica.
L'organizzazione era che si studiava tutto l'anno, salvo un mese in estate, in cui si consentiva ai ragazzi di fare una specie di vacanza, studiando un po' meno. Solitamente le lezioni iniziavano un'ora prima del sorgere dell'alba, poi c'era la preghiera mattutina, poi si continuava. Ovviamente il venerdì si finiva prima, per essere pronti ad accogliere il Sabato; il Sabato niente. Le giornate del giovedì e il venerdì mattina erano dedicate alla ripetizione; l'insegnante provvedeva a rivedere il programma svolto e verificare cosa gli allievi avessero appreso.
C'erano anche dei giorni di mezza vacanza: Hannukà, i giorni di fiera, nei giorni in cui nella comunità si celebra un matrimonio, perché la normativa prevede che tutti i membri della comunità vadano a rallegrare gli sposi e in particolare la sposa e in occasione di una milà, la circoncisione.
Tenete conto delle difficoltà anche economiche. Perché, ad es., in inverno alzarsi un'ora prima dell'alba voleva dire disporre di illuminazione. Ed era considerata un'opera molto meritoria l'offrire l'olio per l'illuminazione della scuola, perché così si favoriva lo studio.