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I GIORNI SEVERI DEL CALENDARIO EBRAICO
(rav Luciano Meìr Caro)


Nel calendario ebraico c'è un periodo che va sotto il nome di iammìm noraìm, che vuol dire appunto giorni severi, terribili, che incutono timore e va dal 1° al 10 del mese ebraico di Tishrì, secondo certi computi. Noi, infatti, abbiamo un calendario molto complicato, solare e lunare contestualmente.
Dal punto di vista biblico, il primo mese dell'anno ebraico è il mese di Nissan, che corrisponde ad aprile e coincide con l'uscita del popolo ebraico dall'Egitto, considerata come la nostra uscita nella storia e perciò la nostra nascita come popolo. Quindi nel testo biblico il capodanno è il primo di Nissan.
Tenete conto che i nomi dei mesi non sono ebraici, ma hanno derivazione probabilmente babilonese e perciò per noi non hanno significati veri e propri.
In quello che è il settimo mese secondo il computo biblico, cioè il mese di Tishrì, noi abbiamo una serie di ricorrenze portanti per il calendario ebraico. Innanzi tutto c'è Rosh hashanà, il capodanno ebraico, che si celebra il 1° di Tishrì e stranamente non il 1° di Nissan; il 10 di Tishrì, invece è il famoso giorno di Kippùr, il digiuno di espiazione. Il periodo compreso fra questi 10 giorni è tutto particolare.
Quando parliamo di queste cose, di ricorrenze, di calendari, bisogna tener conto di un elemento importante e cioè della straordinaria importanza che viene attribuita all'elemento TEMPO nella cultura ebraica. Noi siamo una cultura, una religione, collocata più nel tempo di quanto non sia collocata nello spazio. Forse questo è dovuto a considerazioni di carattere storico: questo popolo, proiettato verso una certa terra promessagli da Dio e poi cacciato, poi ritornato, poi ricacciato e così via, ha avuto sempre un rapporto con la terra di nostalgia, più che reale, cioè sempre con un desiderio forte di ritornare a quella terra. Il legame con la terra c'è, però è stato interrotto più volte nel corso della storia e quindi, privati di una propria realtà territoriale, spaziale, gli Ebrei hanno dato più importanza all'elemento tempo. Il tempo davvero è un qualche cosa che viene a permeare di sé tutto il nostro modo di pensare; non è senza significato il fatto che il testo biblico stesso cominci con una parola temporale: bereshìt, in principio. Un'altra cosa ancora è che, quando si parla della creazione dell'universo nel primo capitolo della Genesi, si dice che Dio creò il settimo giorno, il sabato e lo consacrò; non so cosa vuol dire consacrò (da kadosh), ma certamente questo dice che la prima cosa a cui Dio attribuì un carattere sacro è stato il tempo. Sono estranee alla mentalità ebraica certe concezioni, tipo quella di considerare alcuni luoghi come sacri; per noi non esistono luoghi sacri, perché l'attribuire un particolare valore, una particolare presenza divina in un posto piuttosto che in un altro, è per noi idolatria. Le nostre grandi cattedrali potremmo dire che sono le nostre feste: il Sabato, le ricorrenze e sono indipendenti dall'elemento spaziale. Ciò nulla toglie a tutta l'importanza che noi attribuiamo a Gerusalemme, alla terra di Israele, che però rimangono sempre cose materiali. Questo solo per collocarvi il discorso che sto per farvi.Due espressioni che indicano la festa, la convocazione sacra sono moèd, adunanza, che sottolinea l'elemento aggregativo delle feste e hag, che sembra in relazione al ballo, nel senso che presumibilmente nelle feste antiche c'era una forma di danza e ballo.
Nel nostro calendario ebraico ci sono dei momenti particolarmente importanti. Per primo il Sabato, che scandisce la nostra settimana, la nostra vita. Per l'ebreo il Sabato è qualche cosa di straordinariamente importante. Pensate che i giorni della settimana noi li chiamiamo anche in relazione al sabato: primo, secondo, terzo, quarto… domenica è il primo, lunedì il secondo e così via fino al settimo che è lo Shabbàt. Se voi frequentate una famiglia ebraica che sia compresa dalla propria cultura, vi accorgerete che la vita è scandita da questi elementi: i primi tre giorni della settimana, domenica, lunedì e martedì sono, in qualche modo, collegati col Sabato passato, come se ci portassimo dietro il profumo di quello che è stato; gli altri tre giorni, invece, sono una preparazione verso il Sabato successivo, sia dal punto di vista materiale,come pulizie, cibi, ecc. sia dal punto di vista spirituale. È un punto di vista molto diverso da quello occidentale; il Sabato ebraico è tutt'altra cosa rispetto alla domenica cristiana.
Ci sono una serie di ricorrenze nel nostro calendario che, per motivi didattici, vengono divise in cicli; c'è il ciclo delle tre grandi feste di pellegrinaggio: Pasqua, Pentecoste e Capanne, che hanno tutta una connotazione loro e poi ci sono i Giorni severi.
Prima di entrare in questo problema, volevo tornare un istante al concetto che avevo detto del fatto che noi facciamo il capodanno nel settimo mese, invece che nel primo. In realtà, se noi studiamo le nostre fonti tradizionali, di capodanni ne abbiamo quattro - noi siamo sempre esagerati! Una pacchia! Immaginate: quattro veglioni, ecc.! Uno è il capodanno religioso, tratto dal testo biblico ed è quello di Nissàn, cioè la primavera. Poi c'è un capodanno di carattere agricolo fiscale. Cosa vuol dire? Sapete che nella visione economica del testo biblico c'era il giubileo e le offerte che andavano fatte: ogni produttore doveva prelevare dal proprio raccolto delle decime. Ma come si faceva a prelevare queste decime? Non pensate a un cosa solo religiosa, ma c'erano anche delle implicazioni di carattere pratico. Per quanto atteneva agli alberi da frutto, veniva fatta, in occasione del mese invernale di Shevàt, che corrisponde a gennaio febbraio, da parte di esattori, un'indagine campo per campo per verificare quale fosse l'imponibile per ognuno. Tu hai degli alberi di mele? Bene. Quanto dovrai pagare quest'anno di decima? E si andava ad accertare, ovviamente all'incirca, quali erano quelle mele che erano già sull'albero, non ancora mature, ma delle quali si poteva già riconoscere la forma; tutti i frutti che avevano già la forma entravano nell'imponibile di quell'anno, mentre quelle che ancora non avevano la forma, entravano eventualmente nell'imponibile dell'anno successivo. Orbene, questo controllo veniva fatto nel primo giorno del mese di Shevàt e perciò questo era il capodanno degli alberi. Mentre originariamente questo capodanno era di carattere fiscale, quando è avvenuto l'esilio del popolo ebraico, questa ricorrenza ha assunto la connotazione di nostalgia per la terra. Vi faccio un esempio: un italiano esiliato dall'Italia e, a un certo momento  rimpiangesse il tempo in cui doveva fare la dichiarazione dei redditi e festeggiasse la cosa come nostalgia dell'Italia.
Poi c'erano due altri capodanni. Uno riguardava i re e l'altro i contratti. Cosa significa capodanno dei re? La nomina dei re aveva anche la caratteristica di servire da calendario; nei documenti ufficiali, quando vi scrivevano la data per identificare l'anno, non avevano il conteggio nostro, ad es. 1230, 2004, ecc. ecc., ma facevano riferimento al re e dicevano, per es: "Siamo nel terzo anno del tal re". Non si poteva pensare che tutti conoscessero la data in cui il re era nato o era stato nominato, perciò era stata determinata una data convenzionale, che era il primo di Tishrì; in qualunque data fosse stato nominato il re, quando scattava il primo di Tishrì, quello diventava il secondo, il terzo, ecc. anno del suo regno.
La stessa cosa riguardava i contratti. Se in un contratto c'è scritto che io affitto, per es. una cosa, per un anno, due, tre, ecc. ecc. si fissa il primo di Tishrì come inizio del contratto.
Vediamo che il nostro capodanno ebraico, fissato al primo di Tishrì, originariamente era nato con una finalità pratica, nei contratti e nelle datazioni.
Torniamo al testo biblico, dove si dice che il primo giorno del settimo mese, cioè di Tishrì, sarà per voi una convocazione - moèd, un giorno festivo - e viene dato a questo giorno il nome di Iom teruàh, il giorno del suono (in riferimento allo shofàr, quello strumento tipico dei pastori, un corno di ariete con dei buchini fatti in un certo modo per cui ne fuoriesce un suono particolare, un po' lugubre, che colpisce molto). Il testo biblico dice: "Il primo giorno del settimo mese sarà il giorno del suono", senza spiegarci, cosa si deve suonare e perché e cosa questo ci ricorda. In un altro passo biblico invece di "giorno del suono" viene chiamato zikròn teruàh, il ricordo del suono; allora celebriamo il suono o celebriamo il ricordo del suono? Cosa vuol dire? Il testo biblico è ambiguo, non ci dice niente.
Ancora il testo biblico dice che il decimo giorno del settimo mese è il digiuno del kippùr, in cui dobbiamo astenerci da qualunque cibo, bevanda e forma di godimento fisico per cercare di ottenere da Dio il perdono dei peccati che abbiamo commesso nell'anno che è passato. La tradizione religiosa post biblica ha elaborato una teoria, senza supporto di carattere biblico, ma rifacendosi a tradizioni antiche: il primo di Tishrì, cioè il giorno del suono, è anche il giorno della creazione dell'universo e per questo diventa Rosh hashanà. Tra i maestri si discute se ci si riferisca al primo giorno della creazione dell'universo in generale o al primo giorno della creazione dell'uomo e quindi al sesto giorno, quasi a significare che l'universo abbia preso corpo solo dal primo giorno in cui fu creato l'uomo. Vi ricordate quel mito cabalistico mistico che si chiede come passi il tempo il Signore Dio? Una risposta è che Egli passi il tempo a creare e disfare mondi; Lui crea gli universi, poi non gli piacciono più, li distrugge e ne crea dei nuovi. È una teoria del big bang, se ci pensate. Ogni universo ha una sua vita, quando l'ha esaurita, ne viene creato un altro; sembra che il nostro universo nel quale siamo immersi, che dovrebbe essere il sesto di cui si ha percezione, si sia mantenuto più a lungo degli altri perché qui Dio si diverte di più, perché c'è l'uomo, che sa stargli di fronte in un rapporto profondo, col quale lo provoca, lo chiama al confronto.
Avete notato l'incongruenza? Il capodanno celebrato non nel primo mese, ma nel settimo mese! Orbene, osservano i maestri: tutte quelle cose che corrispondono al numero 7 sono particolarmente care a Dio. Vi posso proporre alcune considerazioni. Immaginate gli universi: qual è la cosa più importante? Il cielo. Shammàim è la quinta parola del testo biblico, ma se leggete con attenzione il primo e il secondo capitolo della Genesi, vedete che c'è una relazione tra il numero 7 e il cielo. In realtà Dio, quando ha creato tutto, ha dato il numero 7 al cielo, perché era più importante. Una considerazione analoga è fatta nei confronti delle terre, le nazioni, la parte emersa. Questo è più difficile da andare ad analizzare nel testo. Ma altrove si dice che nella genealogia degli esseri umani, Adamo, Caino, Abele, ecc. in settima generazione troviamo Enoch, quel tale di cui il testo biblico non ci dice assolutamente niente, salvo che costui non è morto. Di tutti gli altri si dice che visse tanti anni, generò questi e questi figli, poi morì all'età tal dei tali e così via, mentre di Enòch si dice che visse tanti anni e non c'è più; non dice che morì. "Enoch procedeva con Dio e non c'è più perché Dio lo prese". Ma cosa vuol dire? Qualcuno sostiene che sia un caso di una persona non soggetta alla morte fisica, ma entrata direttamente al cospetto di Dio, per aver camminato alla sua presenza. Se guardate i personaggi importanti della mitologia biblica ebraica: Abramo, Isacco, Giacobbe, ecc., vedete che in settima posizione trovate Mosè. Se guardate la genealogia della famiglia di Davide, lui era il settimo figlio. Tra i re che hanno governato il popolo ebraico a partire da Saul, l'unico del quale il testo biblico dice che era una brava persona era il re chiamato Asàf, che era il settimo re. È casuale tutto questo? Forse sì, forse no. Andiamo avanti e troviamo che il settimo anno la terra va lasciata incolta. Finalmente abbiamo il settimo giorno, il Sabato, santificato da Dio. Per tutto questo qualcuno dice che il  settimo mese è più importante del primo, per cui è giusto che il capodanno avvenga in quel mese.
La tradizione posteriore ha inventato che nel giorno in cui si ricorda il compleanno del mondo noi dobbiamo celebrare il giorno del giudizio. Il compleanno viene adoperato da Dio per fare un bilancio degli esseri creati; come se un tale ha un figlio e, in occasione del compleanno, invece di fargli il regalo, la torta, ecc. gli dice: "Vieni un po' qua; guardiamoci un po' in faccia e vediamo come hai vissuto la tua vita. Come ritieni di aver impiegato la vita che io, padre, ti ho dato?". Quindi è come se Dio facesse un'indagine conoscitiva di tutto quello che esiste e in particolare dell'uomo, e che chieda conto all'uomo di come ha vissuto, in particolare nell'ultimo anno trascorso. Ai bambini si racconta che Dio ha un grandissimo librone davanti a sé e ad ogni pagina corrisponde il nome di uno di noi e in questa pagina vengono annotate tutte le cose che vengono fatte nel corso dell'anno, quelle buone e quelle cattive. In occasione del capodanno Dio esamina la pagina e arriva a una conclusione, tracciando un giudizio morale della persona e in base a questo giudizio emette una sentenza; in quel giorno viene deciso come sarà l'anno che sta per cominciare. Quindi il capodanno nostro non ha assolutamente niente di allegro, assolutamente! È un giorno in cui ci sentiamo sotto controllo. Chi è in grado di sapere se ci siamo comportati bene o no? Prima di tutto il Signore Dio, col suo librone, ma subito dopo noi stessi. Però Dio nella sua immensa bontà lascia ancora in sospeso il giudizio per una decina di giorni, in questi giorni che vanno dal capodanno a Iom Kippùr e che sono appunto gli Iommìm noraìm. Il giudizio è scritto, la sentenza è scritta, però può ancora essere can-cellata. Col digiuno di Kippùr la sentenza diventa definitiva, nel senso che, se Dio si è accorto che una persona si è comportata male durante l'anno, però in questi dieci giorni ha dato segno di voler recuperare la sua moralità, può modificare la sua sentenza.
Noi riteniamo che il digiuno di Kippùr, che completa questi dieci giorni, ha una connotazione tutta particolare. I peccati, gli errori che commettiamo nella nostra esistenza sono essenzialmente di due tipi: quelli che facciamo offendendo il nostro prossimo e quelli che invece facciamo offendendo la divinità. Qualche volta le due cose si intrecciano. Se io rubo il portafoglio a qualcuno, offendo il tale, ma offendo anche Dio, che mi ha detto che non devo rubare. Se bestemmio mentre sono da solo, offendo solo Dio. Noi riteniamo che il giorno di Kippùr serva per espiare, per chiedere a Dio il perdono dei peccati che abbiamo fatto nei suoi confronti, però Dio non sta ad ascoltare il nostro pentimento e quindi non ci perdona ciò che abbiamo commesso  nei suoi confronti, se prima non abbiamo recuperato il giusto rapporto con il nostro prossimo. Quindi quei dieci giorni sono dedicati soprattutto ad attività di carattere sociale; cioè mi devo guardare intorno e chiedermi se le persone con cui vengo in contatto, o in modo continuo o in modo sporadico, hanno subito qualche offesa da parte mia. "Sono a posto nei loro confronti? Ho fatto qualcosa che non dovevo fare? Li ho offesi in qualche modo? Consapevolmente o inconsapevolmente?". Nel caso in cui io ritengo di essermi comportato male nei confronti di un mio simile, io devo provvedere a recuperare il rapporto. E come faccio? Molto difficile da fare, ovviamente. Se ho rubato un portafoglio, la prima cosa da fare è restituirlo. Poi devo chiedere perdono al tale a cui ho fatto il male. Ma il processo non è completo se io non temo la persona che ho offeso; io devo convincere la persona che è stata offesa da me, con gli occhini, con le parole, coi miei comportamenti, che io sono veramente pentito di quello che ho fatto. Devo convincerlo fino a portarlo a dire: "Sì, il discorso è chiuso; fra di noi non c'è più conflittualità". Se non c'è questo, il recupero non è completo. Contestualmente abbiamo il dovere di rispondere con il perdono se qualcuno ce lo chiede; se io nego il perdono a qualcuno, nemmeno io ho più il diritto di andare a chiedere perdono a Dio. È un discorso straordinariamente complicato. Ecco perché sono giorni severi, son giorni terribili, che mettono in discussione il nostro essere e richiedono da noi un atto di umiltà profondissima, perché la cosa più difficile nei nostri rapporti col prossimo è riconoscere di avere sbagliato. Tutti noi ci riteniamo dei gran Padri eterni; "Sì, rubare è peccato, ma io l'ho fatto in circostanze speciali, quindi ho tutte le giustificazioni! Sì, ho detto una parolaccia, però anche me l'ha tirata fuori lui! Ma insomma! E poi ero nervoso, c'è la suocera che dà fastidio, mia moglie che rompe le scatole!". Insomma, ognuno di noi si cerca una quantità di autogiustificazioni per dire che la cosa è sbagliata, però io no. Si tratta comunque di un processo molto difficile e qualche volta impossibile. Io ho fatto l'esempio del por-tafoglio, che è molto semplice, ma se ho offeso una persona in un modo che non è possibile restituire niente, come faccio? Pensate a chi offende un'altra persona con le parole; qualche volte tale offesa è peggiore di uno schiaffo. Quindi devo inventare delle cose per risarcire questa persona, ma non dico economicamente. Qualcuno mi chiede ogni tanto: "Ma voi ebrei non perdonate mai?". Ma io dico: "Come faccio a perdonare per una cosa che non è stata fatta a me?". Ci sono delle cose che non sono più recuperabili. Se un tale ha ammazzato una persona, come fa a restituire la vita che ha sottratto? Delle volte mi chiedono: "Lei i nazisti li perdona?". Io posso perdonare per quello che hanno fatto a me, ma come faccio a dare il perdono per conto di un altro? Chi sono io per perdonare a un tale che ha fatto qualcosa a un altro, che non sono io?
Se ho fatto tutte queste belle cose che vi dicevo e sono riuscito a recuperare i miei rapporti coi miei simili, arriva il giorno di Kippùr e, nel digiuno, dico: "Signore, adesso facciamo i conti noi due; ho fatto delle offese anche nei tuoi confronti". Non posso risarcire Dio, ma posso elaborare nel mio intimo una serie di propositi di non ricadere più e soltanto in parte io e sicuramente Dio è in condizione di valutare se il mio proposito è sincero o no. Quindi questi giorni sono veramente drammatici. Molto spesso capita che alla fine del giorno di Kippùr non abbiamo la consapevolezza di aver fatto tutto quello che dovevamo fare, perché molto spesso il nostro animo è contorto. E poi posso aver offeso qualcuno inconsapevolmente. Io chiedo scusa, chiedo perdono anche nelle mie manifestazioni pubbliche liturgiche, però non basta, perché non sapendo tutto quello che posso aver fatto, come faccio a risarcire. Contestualmente dico anche: "Vi posso dire che non mi risulta, ma nel caso che qualcuno mi abbia offeso e io non me ne ricordi, per me il problema non c'è più". È facile da dirsi, ma quante volte facciamo dei danni agli altri e non ce ne accorgiamo; una parola detta nel momento non giusto, può costituire per una persona una ferita insanabile.
Noi abbiamo anche elaborato una teoria, che cerca di aggrapparsi ai passi biblici, ma fino a un certo punto, che sostiene che allorché Dio ha creato l'universo, e ci soffermiamo solo al suo rapporto con l'uomo, Egli avrebbe elaborato un meccanismo che è la legge del pentimento, alla quale Lui stesso si sottopone. Ciò significa che Dio esercita nei confronti dell'uomo una giustizia, con la g maiuscola, assoluta e sempre permeata di bontà, infatti si dice che Dio è stanchissimo, perché non fa altro che passare dal trono della giustizia al trono della bontà. Così nei suoi rapporti con noi Dio è contestualmente padre amorevole e giudice; un mondo che fosse fondato soltanto sulla bontà e la misericordia di Dio nei nostri confronti sarebbe un mondo dove nessuno avrebbe né meriti, né demeriti, perché tanto Dio perdona tutto; allo stesso modo un mondo che fosse fondato soltanto sulla giustizia non sopravvivrebbe un istante, perché Dio dovrebbe distruggerci tutti. Però la teoria del perdono, elaborata da Dio, dice che qualsiasi cosa abbia fatto l'essere umano, di qualsiasi peccato si sia macchiato, se l'essere umano è veramente, sinceramente e totalmente pentito, Dio non può fare a meno di perdonarlo.
Questo pentimento ha tante fasi, come dicevo prima, soprattutto quella di elaborare in se stessi la decisione di non ricadere più in quello stesso errore; ma non è finito qui, perché il proposito non è sufficiente, ma bisogna venirsi a trovare in quelle stesse circostanze nelle quali avevamo commesso l'errore e non ricaderci più. Ottemperare a tutte queste condizioni di pentimento è la teshuvà, il tornare indietro. I maestri dicono che questa legge ha valore fino a un giorno prima della morte dell'uomo; cioè noi abbiamo tempo di pentirci fino a un giorno prima della nostra morte. Quindi devo fare adesso questo processo, perché non so se domani ne avrò ancora l'opportunità.
Tutto questo è collegato con un'altra teoria: se Dio applicasse questa norma della teshuvà sempre e ovunque, ne potrebbero risultare delle forme di ingiustizia universale. Allora questa legge del pentimento sarebbe stata in qualche modo attenuata da Dio in determinate circostanze, che sono queste: allorché un essere umano si sia macchiato di colpe talmente gravi che il perdono di tali colpe sarebbe una scandalosa offesa nei confronti della giustizia, Dio impedisce a quel tale di pentirsi. Stiamo entrando in un discorso eccezionalmente difficile. Guardiamo al testo biblico, alla narrazione che riguarda la storia di Faraone, all'inizio del libro dell'Esodo; Faraone si è macchiato di colpe gravissime nei confronti dei popoli a lui sottomessi e, per sollecitarlo a tornare indietro, Dio ha mandato le 10 piaghe. Se leggete la descrizione di queste piaghe, alla fine delle prime quattro, si dice che Faraone indurì il proprio cuore, ma dalla quinta in poi si dice che l'Eterno indurì il suo cuore. Noi interpretiamo questo fatto nel senso che Faraone si era spinto talmente avanti con i peccati, oltre la linea rossa, perciò non solo lui non aveva più possibilità di pentirsi, ma è come se Dio stesso lo spingesse in quella direzione per aiutarlo ad avere la punizione che si merita. Per i nostri maestri questa cosa si verifica ogni mille, duemila anni; questo fatto non vale per le persone normali, ma ci sono delle  situazioni eclatanti. Pensate nella storia: ci sono dei personaggi che si sono macchiati di delitti incommensurabili. Butto lì così: Hitler, per dire un nome. Immaginate se quello una settimana prima avesse detto: "Io son pentito!". Eh, no! Quella diventa una eclatante offesa nei confronti della giustizia. Se ti incammini in una certa strada e oltrepassi una certa linea rossa, non solo non puoi tornare indietro, ma è quasi come se Dio ti spingesse in quella direzione e dicesse: "Hai scelto questa strada? Vai fino in fondo!".
Torniamo al discorso dei nostri giorni severi. Già da un mese prima noi cominciamo a prepararci a questo momento così importante. Nel mese di Elùl, l'undicesimo mese del calendario ebraico, noi pensiamo che dobbiamo cominciare da adesso a fare un'indagine, un esame di coscienza. Io lo sto facendo anche nei vostri confronti e ve lo dico con molta sincerità: nel caso che io in questa circostanza o in circostanze passate abbia, involontariamente o volontariamente, offeso i sentimenti di qualcuno di voi, dico: non era nelle mie intenzioni. Vi chiedo di tenere conto di questo fatto: nessuno di voi mi ha mai offeso in nessun modo, ma se l'avesse fatto o avesse solo pensato di farlo, per me la cosa non sussiste.
Noi diciamo anche che il mese di Elùl è particolarmente propizio a questo recupero del rapporto con Dio, perché la parola Elùl, un termine babilonese probabilmente,  non vuol dire niente. Qualcuno ha notato che queste quattro lettere sono le iniziali di un famoso versetto: "Io sono del mio amore e il mio amore è mio", preso dal Cantico dei Cantici. L'interpretazione è che qui si tratti del rapporto amoroso che c'è tra l'uomo e Dio. In questo mese c'è una particolare vicinanza tra ognuno di noi e Dio, come se dicessimo: "Senti, Amore Dio, dammi uno sguardo benevolo, perché mi trovo in una situazione molto delicata, tra un po' comincerà il mio giudizio e ho bisogno del tuo aiuto".Sapete che tutte le nostre feste sono collegate a certe azioni, gesti; ad es. a pasqua mangiamo il pane azzimo, per la festa delle capanne costruiamo la capanna, ecc.
Qual è l'elemento portante, simbolico, di questa festa? È il suono dello shofàr, che ha tantissime valenze. Ci ricorda il nostro passato, perché era lo strumento del popolo di Israele quando era nella sua terra e viveva come popolo di pastori. Poi, col suo suono lugubre, ci ricorda che dobbiamo risvegliare le nostre coscienze; non è un suono allegro, ma fa vibrare il nostro intimo, come se ci venisse detto: "Svegliatevi, ragionate riflettete su quello che è stato il vostro comportamento". Ha anche un significato ricattatorio - dico una parola forte - nei confronti di Dio; noi "ricattiamo" Dio con questo suono, perché lo shofàr, fatto di un corno di ariete, ci ricorda il sacrificio di Isacco, perché al posto del figlio, Abramo sacrifica un ariete. Quindi è come se noi dicessimo a Dio: "Ricordati che questo corno evoca, in te e in noi questa cosa: io non sono niente, però ho un merito, che discendo da un augusto padre, che aveva una profondissima fede ed era disponibile ad uccidere il figlio perché tu glielo avevi ordinato". Il giorno di Rosh hashanà è obbligatorio ascoltare questo suono; quindi o si va in sinagoga, oppure lo suoniamo per conto nostro. C'è la tradizione che il rabbino, o chi per esso, se c'è qualche persona o malata o all'ospedale, va da lui per suonarglielo, perché tutti hanno diritto di sentire il suono dello shofàr. In condizioni eccezionali, quando proprio non si può fare diversamente, ricorriamo a una registrazione. Non è facile suonare lo shofàr, perché ci vuole tanto fiato.
Tra l'altro la fine della festa di Kippùr, alla sera, quando finisce il digiuno e noi pensiamo che sia questo il momento in cui Dio presumibilmente ci ha perdonato, se ce lo meritavamo, si suona di nuovo lo shofàr. Però la valenza di questo suono nel giorno di Kippùr è tutta diversa da quella del giorno di capodanno, perché questa è semplicemente una segnalazione per le donne che sono a casa di buttare la pasta, perché tra un po' arrivano i mariti affamati.
Questo mese di Tishrì c'è solo festa: il primo è capodanno, il 10 è Kippùr, il15 comincia la settimana della festa delle Capanne e lo chiamano il mese delle circostanze forti.


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