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La cantica del mare (Esodo 12)
(Rav Luciano Caro)


Vi dico subito che, dal punto di vista ebraico, la cantica del mare è incomprensibile. I nostri maestri dicono che in questo testo c'è il presente, il passato e il futuro. Questo elemento parte dalle difficoltà di capire il testo, ma anche dalle parole con cui inizia il testo: "Mosè cantò con i figli di Israele questa cantica dicendo" e poi segue l'enunciazione della cantica stessa.


Ma i nostri maestri, sempre attenti a tutti i minimi particolari, notano che la parola iniziale - yashìr - è voce del verbo "cantare", ma è espressa al futuro. Alla lettera, dunque, sarebbe da tradurre: "Canterà Mosè". Orbene, la poesia si può permettere anche di non tener conto della grammatica, ma è come se Mosè non avesse cantato questa cantica in occasione del passaggio del Mar Rosso, ma è qualcosa che deve ancora essere cantato. Nel senso che contiene dei messaggi che si realizzeranno completamente solo in un futuro. Quindi nasce un atteggiamento di grande ambiguità davanti a questo testo, perché lo si può leggere con superficialità e non porsi dei problemi, ma si possono anche cercare dei messaggi che forse non sono così trasparenti.

Due osservazioni preliminari. Nell'immaginario collettivo ebraico, in tutte le descrizioni dell'uscita dall'Egitto, questo evento è, sì, parte della storia ebraica, ma inserita nella storia del mondo. I nostri maestri dicono che ci sono stati, nel passato, due momenti importanti della manifestazione della presenza di Dio nel mondo, analoghi tra di loro. Per il momento sono stati due e forse tre, ma poi ce ne saranno degli altri. Questi momenti sono la creazione dell'universo, l'uscita dall'Egitto e, collegata ad esso, la manifestazione di Dio sul Sinai, allorché ha dato la Legge.

Non capite determinati atteggiamenti ebraici, se non tenete conto di questa realtà, che vede così connessi questi tre eventi. Per noi l'uscita dall'Egitto è stata qualcosa di straordinariamente clamoroso e porta in sé l'atteggiamento che l'uomo deve avere nei confronti di Dio. Mi spiego. Qualche volta ci poniamo il problema se Dio c'è o non c'è. D'altra parte un Dio che sia dimostrabile coi nostri parametri non sarebbe più un Dio. Se Dio c'è - e io son convinto che ci sia - è straordinariamente diverso da quello che noi immaginiamo; è impossibile trovare una definizione di Dio. Ma se ci domandiamo qual è la prova dell'esistenza di Dio, la risposta è la creazione del mondo. E la sua più clamorosa rivelazione nella storia è stata la liberazione del popolo ebraico dalla schiavitù egiziana. Noi interpretiamo questo come qualcosa di veramente eccezionale, perché quando Dio vuole interviene nella storia del mondo e fa delle cose che sono assolutamente incomprensibili e inconcepibili dal nostro punto di vista. Che un gruppo di schiavi, di sbandati, fosse uscito dalla grinfie di un regime spaventosamente potente, era un qualcosa di assolutamente inimmaginabile. Dio interviene in tutti i momenti, ma questo è stato l'intervento più clamoroso.
E vi dico queste cose con un atteggiamento ottimistico, perché se un popolo come quello ebraico, ma questo vale per qualsiasi popolo, è riuscito ad ottenere la liberazione da un tale potere, vuol dire che nessuna schiavitù è eterna. C'è sempre un momento in cui viene ripristinata la giustizia. Lungo tutta la nostra tradizione noi ci troviamo a ribadire l'assoluta importanza di questi due eventi: creazione del mondo e uscita dall'Egitto, quasi a dire che l'universo è stato creato per arrivare alla liberazione dalla schiavitù egiziana, per dare una giusta connotazione a quella che è la presenza umana e al rapporto che c'è tra uomo e Dio. Si può discutere su queste cose, non è la verità assoluta, ma volevo dire che questo è l'atteggiamento in cui si pone la nostra tradizione nei confronti di questo evento.
Ma salgo ancora un gradino. Quando parliamo della liberazione dall'Egitto, ricordiamo le piaghe che hanno colpito l'Egitto, ecc. ma i nostri maestri dicono che il momento più importante dell'uscita dall'Egitto non sono stati tanto questi segni clamorosi, ma la traversata del Mar Rosso, il fatto che il mare si sia aperto e il popolo sia passato.
In quella circostanza c'è stata una sensazione, nel popolo ebraico che ha partecipato all'evento, della presenza divina, quale non c'è mai stata prima e non ci sarà mai dopo. In quell'occasione si dice che la più umile, impreparata e ignorante delle donne ebree ha avuto una tale percezione di Dio, quale i più grandi profeti non hanno avuto.
E questo deriva dal fatto che nel testo si dice: "Il popolo ebbe fede in Dio e in Mosè suo servo". Cosa che non era mai stata detta. Come se nemmeno le piaghe e tutti i prodigi avessero prodotto una tale fiducia nel popolo, ma in occasione della traversata del mare sì. Interessante notare la presenza della radice amèn, che esprime fiducia piena e completa. Detto in altro linguaggio, è capitato e capita spesso anche a ognuno di noi di avere la percezione della presenza di Dio. Può capitare anche che qualcuno in buona fede abbia la percezione della presenza di Dio. I maestri dicono che sempre anche i più grandi profeti hanno visto, percepito la presenza di Dio "attraverso uno specchio non illuminato". Per es. Isaia, Ezechiele raccontano di aver avuto una visione di Dio, però la loro visione avveniva attraverso uno specchio non illuminato, come se fossero al buio.
Ripeto: per noi il momento della traversata del Mar Rosso è stato quello più importante di tutto l'eventi della liberazione dall'Egitto. La traversata, secondo la tradizione, è avvenuta sette giorni dopo l'uscita del popolo dall'Egitto. Voi sapete che noi celebriamo la Pasqua per sette giorni, o otto nella diaspora, ma il giorno più importante della festa non è il primo, bensì il settimo, proprio perché ricorda la traversata del Mar Rosso.
Detto questo, c'è un altro elemento. Secondo la tradizione il testo della Torah è diviso in 54 brani, perché 54 sono i sabati che mediamente compongono l'anno ebraico; ad ogni sabato è associata la lettura di una di queste 54 parti. Qualche volta abbiamo l'impressione che questa divisione sia fatta in maniera artificiale. Ma molto spesso capita che queste parti sono divise a metà, in cui la prima parte parla di un argomento e la seconda di un'altra cosa. Per studiare la Torah, bisogna tener conto anche di questi elementi.
Uno dei problemi che ci poniamo è se Mosè abbia scritto la Torah di getto, in modo organico, oppure pezzettino per pezzettino, in tempi diversi, poi qualcuno o lui stesso, alla fine della sua vita, ha messo insieme tutto in un unico volume. Insomma, la Torah è un'opera organica che segue una logica o no? E' un problema che resta aperto.
Leggendo questi brani, comunque, settimana per settimana, senza soluzione di continuità, arriviamo a leggere anche il brano che riguarda l'uscita dell'Egitto e l'inizio del viaggio fino all'apertura del mare; e questa è la prima parte del brano. La seconda parte, invece, parla di tutt'altra cosa. La prima parte è scritta in maniera aulica ed enfatica, la seconda parte è terra terra. Appena poche ore dopo aver vissuto l'esperienza grandiosa della traversata con una percezione così forte della presenza di Dio, tutto cambia, il popolo cade in basso, tutti si ribellano e chiedono ora l'acqua, ora la carne. Questo ci lascia stupiti.
Torno un attimo indietro.

Tenete conto che uno dei modi di interpretare il testo biblico è leggerlo e cercare di capirlo. Ma c'è anche un'altra modalità, che è quella di leggere ciò che non c'è scritto, perché ci sono degli aspetti di cui il testo non ci dice assolutamente niente. E lo fa deliberatamente, quasi a stimolare la nostra fantasia, per portarci a chiederci che cosa sia successo veramente.
Allora, conoscete la collocazione del brano: gli Ebrei sono sulla riva del mare, sono inseguiti dagli egiziani, durante la notte sono divisi dall'esercito egiziano da una nube, una barriera di fuoco dalla parte egiziana e di nube dalla parte ebraica. Al mattino la barriera si dissolve e gli ebrei si trovano con il mare davanti e gli egiziani che li stanno inseguendo. Non possono andare avanti né indietro. Mosè invita ad andare avanti, perché il mare si aprirà. Chi è che va avanti per primo? Vi immaginate la scena? I nostro maestri propongono due sceneggiature. Una è che ci sia stato un litigio tra gli uomini validi lì presenti, per avere il merito di manifestare una grande fede in Dio. La seconda invece prevede un litigio al contrario, per cui nessuno voleva andare avanti. Non so quale delle due possa avvicinarsi di più alla realtà. Io propendo per la seconda.
I nostri maestri propongono al lettore di calarsi in quella situazione e provare a pensare cosa faremmo. Si dice che mentre la maggior parte degli uomini validi stavano litigando per sottrarsi a questa cosa, c'è stato un tale, un certo Nachshon, che ha lasciato gli altri a discutere e lui è entrato nel mare. Nel momento in cui lui ha messo il piede nelle acque, le acque hanno cominciato a dividersi. E questo tale sarebbe stato premiato, perché è diventato progenitore del re Saul.

Attenzione! Credo che sia importante l'insegnamento che ne possiamo ricavare. Ci sono dei momenti drammatici, in cui le discussioni non servono a niente, ma bisogna che qualcuno prenda in mano la situazione e agisca.
Vorrei dare uno sguardo al testo di questa cantica, anche se non posso fermarmi su tutto. Anche graficamente si nota che è fatta da piccoli pezzettini, intervallati da uno spazio vuoto. Un'interpretazione sostiene che questi pezzettini vanno letti a due a due; Mosè avrebbe pronunciato il primo distico e il popolo il secondo, rispondendo. Infatti sta scritto che Mosè ha cantato insieme al popolo. Faccio un esempio. Inizia così: "Voglio cantare in onore del Signore, perché è stato meraviglioso"; poi: "Cavallo e cavaliere ha scagliato nel mare". E va avanti così. Ma guardatevelo voi.
Ci trovate una differenza come contenuto? Qualcuno vede la differenza nel fatto che Mosè si tiene su un piano elevato, mentre il popolo sta su un piano più terra terra, non guardando tanto la grandezza di Dio, ma come sono andate le cose nel concreto.
Non è da dimenticare il fatto che alla fine, c'è anche una cantica più breve fatta dalle donne, guidate da Miriam. Anche questa cantica è fatta sullo stesso stile.
Volevo darvi un piccolissimo esempio di come non sempre è facile capire un testo e come si è tentato di spiegarlo nella nostra tradizione.
Vado avanti col testo: "Egli è la mia forza e la mia gloria" e la risposta: "A lui devo salvezza, egli è il mio Dio". C'è un'implicazione personale nella seconda parte.
Ancora: "Questo è il mio Dio e lo glorificherò"; "E' il Dio dei miei antenati e lo esalterò". Il popolo fa riferimento alle generazioni precedenti.
Ma non siamo tanto sicuri sulla traduzione della prima parte. Fino a "Questo è il mio Dio", siamo d'accordo, ma sulle parole che seguono ci sono grossi dubbi, per la presenza di una parola di difficilissima interpretazione.
C'è chi fa derivare il termine dalla parola navé, che vuol dire "residenza", quindi: "Questo è il mio Dio e io gli farò una residenza" (ma ragiono per disperazione). Quasi a voler esprimere il desiderio di identificare un posto dove pregare Dio. Una questione molto umana, per cui noi abbiamo bisogno di un posto preciso in cui metterci a pregare. In fondo ritroviamo questo tema anche nell'ultimo versetto: "Un santuario a Dio costruiranno le tue mani".
Ma tanti interpretano il termine come derivante da noì, cioè "abbellimento", "ornamento". Ma cosa vuol dire: "Io rendo bello, faccio un ornamento a Dio"? I maestri sostengono che rendere bello Dio non sta in piedi, è una sciocchezza. Allora si può dire che si vuole rendere bello qualcosa che ci colleghi a Dio. Cioè quando vogliamo servire Dio, rendergli culto, dobbiamo cercare qualcosa di bello. Per es. il tallìt, il manto per la preghiera, che deve avere certe caratteristiche secondo la normativa, però deve essere anche bello. Lo stesso vale per lo shofàr.
Un'altra interpretazione che questa parola può derivare dalla fusione di due parole: io e lui, cioè il mio Dio e io. Cerco la vicinanza con Dio, cerco di entrare nel contatto più stretto possibile con Lui.
Al v. 11 dice: "Chi è come te tra le divinità, o Dio; chi è come te circondato di sacralità". E va tutto bene; non c'è nessuno che possa essere paragonato a Dio. E poi: "Terribile per le lodi, che fa cose miracolose". Anche noi Ebrei leggiamo certe cose con noncuranza, anche perché la cantica del mare fa parte della liturgia quotidiana, quindi tutte le mattine ripetiamo queste parole. La routine ci porta ad essere superficiali. Ma cosa vuol dire che le lodi di Dio sono terribili, temibili? E' forse un avvertimento per tutti noi? Quando eleviamo delle lodi a Dio, noi lo facciamo in buona fede, ma dovremmo aver paura, perché stiamo facendo una cosa arbitraria, perché ci assumiamo una responsabilità di lodare Dio e chi siamo noi? Qualunque cosa possiamo dire per celebrare le sue lodi, siamo assolutamente insufficienti.
Quindi le nostre lodi potrebbero addirittura essere offensive, perché troppo incapaci, inadeguati. Lodare Dio è un'operazione pericolosa, che dovrebbe incutere timore.
A questo proposito è stato anche notato che la cantica è composta da 18 versetti, come sono 18 le benedizioni, che sono la parte fondamentale della liturgia ebraica quotidiana. Ma 18 sono anche gli anelli della spina dorsale, quasi che chi ha intonato questa cantica deve coinvolgere la parte fondamentale del nostri stare ritti.
Ma torno al testo, per passare dalla poesia alla prosa. Dopo la cantica di Mosé e del popolo, dopo la cantica più breve delle donne e di Miriam, il testo dice che subito dopo Mosè fece partire Israele dal Mar Rosso "e uscirono al deserto di Shur e procedettero per tre giorni nel deserto e non hanno trovato l'acqua". Poi arrivano in un posto chiamato Marà, "ma non potevano bere l'acqua, perché era amara e tutto il popolo protestò con Mosè, dicendo: cosa beviamo? E Mosè grida all'Eterno e Dio gli mostra un ramo, che gettò dentro l'acqua e l'acqua si è dolcificata". E una frase che lascia perplessi, anche perché presenta allitterazioni, con un gioco tra s e sh. Traduco: "L'ha gli ha posto statuti e leggi e là lo ha messo alla prova". Cosa vuol dire?
La prima cosa che succede dopo la grandiosità del passaggio, è che Mosè fece partire il popolo. Da notare che questa è l'unica volta che il testo dice "li fece partire". Un cammino di tre giorni, dopo il quale non hanno trovato acqua. Protestare è umano, ma possibile che dopo soli tre giorni abbiano già perso la fede? Ma i nostri maestri dicono che "fece partire" può essere interpretato in due modi, o positivo o negativo. In senso negativo è che non volevano partire e Mosè li ha dovuti costringere. In senso positivo perché non volevano lasciare quel luogo così santo, in cui avevano percepito con tale forza la presenza di Dio. I nostri maestri dicono anche che il popolo non voleva partire, perché essendo affogati tutti gli egiziani, aspettavano che la corrente portasse a riva gli ornamenti, le ricchezze dei cadaveri.
O peggio ancora dicono che il popolo voleva già tornare in Egitto, visto che i persecutori sono morti. Era passata solo una settimana! Tutto molto umano, ma i nostri maestri sono dei fini psicologi. Finita la grande manifestazione divina, torna la cecità. Ecco perché i nostri maestri dicono che i grandi miracoli non servono a niente, perché appena svaniscono, tutto torna come prima.
E allora forse si spiega la frase finale: "Là gli ha dato statuti". Era già necessaria una disciplina. Ma quello che segue, che senso ha? Perché e chi ha messo alla prova. Dio ha messo alla prova il popolo, per vedere fin dove arriva la sua fede? Oppure è il popolo che ha messo alla prova Dio, quel Dio che ha fatto cose clamorose, ma ora dov'è?
Poi c'è questa conclusione. "Disse"; non sappiamo se sia Dio che parla o Mosè. "Se darai ascolto alla voce dell'Eterno tuo Dio, se farai ciò che è retto ai suoi occhi, se ascolterai i suoi ordini e osserverai tutti i suoi statuti, tutte le malattie che ho inviato sull'Egitto, non le farò venire su di te, perché io sono l'Eterno, che ti guarisce".
E' Dio che guarisce. E subito dopo un'altra frase incomprensibile: "Partirono e andarono verso Elìm e là c'erano 12 sorgenti d'acqua e 70 palme e si accamparono là presso l'acqua". E cosa importa tutto questo? Ovviamente scatta la numerologia. 12 come le tribù; 70 come gli anziani che riceveranno la Torah.
Vedete che è già adombrata la normativa, che è la prima cosa necessaria per la vita.
I miracoli servono a poco, e non servono a niente per quanto attiene alla fede, perché o la fede ce l'hai e dunque non hai bisogno dei miracoli, o non ce l'hai e allora la cosa eccezionale può colpire la tua fantasia lì per lì, ma poi non te ne ricordi o cerchi di razionalizzare e darti spiegazioni.
I nostri maestri dicono di non appoggiarsi mai sui miracoli. Il miracolo è quello della vita quotidiana. Bisogna gestire la nostra esistenza nella banalità della nostra vita, ascoltando le leggi che Dio ci dà.



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