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L'Eutanasia nel pensiero ebraico
(Rav Luciano Caro)

Questa sera dovremo parlare in forma abbastanza breve dell'eutanasia, un problema di carattere etico. Il mio intervento sarà piuttosto sporadico, darò dei flashes,alcune notizie prese dalla tradizione ebraica. Non pensate che l'argomento possa essere esaurito nel breve tratto di un'ora.
Stranamente, su questo argomento della eutanasia, cioè del passaggio dell'essere umano dalla vita alla morte, le fonti ebraiche sona piuttosto parche, telegrafiche. E questa è una caratteristica dell'ebraismo, che pure vuole regolare tutti gli aspetti della vita dal momento della nascita fino al momento della morte, ma quando si arriva a questo punto si nota una forma quasi di ritegno a parlare dell'argomento.
Punti principali di partenza per affrontare questo argomento sono due versetti biblici del Levitico del capitolo 19 e del capitolo 18.
Il versetto 16 del capitolo 19, che è il famoso capitolo che contiene la massima "Ama il prossimo tuo come te stesso", afferma: "Non startene fermo presso il sangue del tuo compagno". La interpretazione tradizionale ebraica è che c'è un divieto preciso di starsene inerti quando è in gioco la vita di qualcuno. Quando c'è un pericolo di vita, bisogna darsi da fare.
L'altro verso che ci può servire come base è il vers. 5 del capitolo 18 del Levitico: "Osserverete i miei statuti e le mie leggi, che li metterà in pratica l'uomo e vivrà attraverso di questi. Io sono l'Eterno". Anche da questo versetto, che può avere varie interpretazioni, si deduce che nel mettere in pratica la volontà di Dio, tutte le volte che noi vogliamo farlo, lo scopo è la vita. La legge di Dio è un mezzo per dare la vita all'uomo, si estrinseca nella vita; quindi la vita è messa come un valore eccezionalmente alto, si potrebbe anche dire che è persino al di sopra della legge divina, che è orientata nel senso della vita. I Maestri dicono che tutte le volte che dovesse esserci un dilemma - mettiamo in pratica la legge di Dio o rinunciamo ad una vita umana - dobbiamo piuttosto mettere in second'ordine la legge divina e salvare una vita umana. L'uomo dall'applicazione della legge di Dio deve trovare la vita e non la morte.
Un altro versetto dal Deuteronomio (30, 19) dice: "Io ho posto di fronte a te la benedizione e la maledizione, la vita e la morte e tu sceglierai la vita".
Questi sono dei punti fissi che possono darci delle indicazioni.
Quanto dirò è frutto di ricerche nelle fonti ebraiche, ma non esiste una presa di posizione univoca, certa, alla quale ci si debba attenere.
Quando ci troviamo di fronte ad una persona che è agonizzante , ogni situazione è una situazione a sé. Ogni cosa va esaminata con grandissima attenzione.
Ci sono poi delle espressioni prese dalla letteratura rabbinica che possono sembrare paradossali e si presentano non come norma di legge, ma come punti di vista su determinate situazioni. Io ve ne leggo due o tre.
Nel trattato dei Padri, nella Mishnàh, si dice: "E' migliore un'ora di penitenza e di buone azioni in questo mondo più di tutta una vita nel mondo futuro". E' un po' più di paradossale. D'altra parte due righe più sotto si dice che: "E' migliore un'ora di soddisfazione nel mondo futuro più di tutta la vita in questo mondo". Sembra esattamente il contrario. Potrebbe anche voler dire: cercati il tuo paradiso qui in qualche modo.
Un'altra massima,  sempre presa dal trattato dei Padri, dice che questo mondo assomiglia a un corridoio, a un'entrata, nei confronti del mondo futuro" e aggiunge questo Maestro: "Preparati nella sala di attesa affinché tu possa entrare nel salotto". Secondo questo punto di vista tutta la vita che noi viviamo non è altro che una preparazione di qualcosa di molto più valido che è il mondo futuro.
Se leggiamo le fonti ebraiche notiamo che in tutte le fasi della dipartita da questo mondo, l'aspetto che è più importante è lo stato fisico del paziente. Ci possono essere vari atteggiamenti nei confronti di un tale che sta morendo, ma i preparativi della morte non devono assolutamente essere fatti in modo tale da poter aggravare la situazione fisica del paziente o indebolirne la sua volontà di guarire. Tutto quello che noi facciamo nei confronti di questa persona non deve cadere in questi due rischi.
Ora propongo quanto dice il testo giuridico, normativo, ebraico. Quando un tale sta per morire gli si deve dire, ovviamente se è cosciente, di pensare alle sue cose e di domandarsi se ha prestato dei denari o se ha affidato degli oggetti in custodia a qualcuno, ma questo avvertimento va fatto in modo tale da non spaventarlo. Se la situazione si aggrava, gli si deve dire di confessare i propri peccati a Dio e gli si deve aggiungere di fare bene attenzione, che molte persone non si sono confessate e sono morte e molte altre si sono confessate e non sono morte. La confessione non è collegata con la morte, in relazione con quanto si dice nel trattato dei Padri che un uomo si deve pentire un giorno prima di morire e siccome nessuno di noi sa quando morirà vuol dire che tutti i giorni bisogna pentirsi e - si aggiunge - "Proprio in grazia di questa tua confessione Dio aiuterà la tua guarigione". Quindi il segreto di questa confessione è di incoraggiare l'individuo e viene suggerito al malato di dire: "Io riconosco davanti a Te, o Dio mio e Dio dei miei Padri, che la mia guarigione o la mia morte sono nelle tue mani e confido che Tu mi manderai una guarigione completa e se poi dovrò morire, che la mia morte sia una espiazione per tutti i peccati e gli errori che abbia compiuto nei tuoi confronti.
Quindi c'è un elemento di speranza nella confessione, non solo, ma si aggiunge che questa confessione non deve essere fatta in presenza di persone ignoranti, di donne o di bambini, perché la presenza di queste persone potrebbe scoraggiare l'individuo con manifestazioni scomposte di dolore.
Ora due parole su come dobbiamo comportarci nei confronti di un tale che è moribondo. Ci si rifà a dei passi biblici.
Il secondo libro dei Re al capitolo 8  vers. 10 dice che il re di Aram mandò un suo funzionario a chiedere al profeta Eliseo se sarebbe guarito dalla sua malattia e il Profeta risponde: "Va e digli: Tu vivrai! Ma Dio mi ha comunicato che morirà".
Nelle fonti midrashiche e talmudiche si sottolinea poi negativamente un fatto del profeta Isaia - cap.38 vers. 1 - che dice al re Ezechia di far testamento perché sta per morire. Secondo i Maestri, Isaia fu punito per non aver incoraggiato il malato, ma avergli detto che stava per morire.
Quando un medico si trova davanti un malato senza speranza di guarigione, la norma giuridica ebraica dice che gli si deve dire cosa mangiare e cosa bere e non fare mai riferimento in alcun modo alla morte. Il medico deve continuare a fare il medico.
Dal punto di vista giuridico ebraico la persona che sta per morire è colui che ha la respirazione difficile ed emette dalla sua bocca catarro ed è considerato vivo a tutti gli effetti e non perde nessuno dei diritti dell'essere umano. Si dice che di solito questa situazione di agonia dura tre giorni. Questo problema i Maestri se lo ponevano in relazione ai comportamenti cui sono tenuti i parenti molto stretti per le manifestazioni pubbliche di lutto nel caso in cui si sapesse che un congiunto molto stretto era gravemente ammalato poi non si sappia più nulla di lui. Entro tre giorni il congiunto deve darsi da fare per sapere l'esito della malattia ed attuare i comportamenti conseguenti. La norma giuridica ebraica dice inoltre che non possiamo legare le guance al moribondo, ungerlo, lavarlo, chiudergli gli orifizi naturali, togliergli il cuscino da sotto, appoggiarlo sopra della sabbia o sopra un letto duro o per terra, mettergli sul ventre una pentola con dell'acqua o dei grani di sale. Questo significa che non si può fare niente che si debba fare dopo la morte.
Bisogna fare molta attenzione a non chiudere gli occhi se non si ha la certezza assoluta del decesso, perché chiunque chiudesse gli occhi a qualcuno che spirerà un centesimo di secondo dopo, è considerato come un assassino.
La pentola sulla pancia, il sale, il mettere il corpo sulla terra o sulla sabbia erano usanze collegate all'antico ambiente orientale, non solo ebraico, per evitare che il cadavere, in ambiente molto caldo, si gonfiasse.
Il concetto è che colui che è agonizzante si trova nella situazione di una candela che sta per spegnersi, quindi occorre grande attenzione per evitare con qualsiasi atto di accelerarne il decesso.
Ovviamente tutte le azioni collegate alla terapia sono permesse, anche spostargli il cuscino se si ritiene possa in tal modo respirare meglio.
C'è una disposizione legale ebraica, che sostiene che quando una persona è ammalata è necessario abbia sempre qualcuno ad assisterlo, al fine di evitare che il malato assuma posizioni disordinate che potrebbero dare impressione di accelerargli il decesso, ricomponendolo.
Il concetto generale è di non relativizzare la vita, che è un valore di carattere supremo e si richiede perciò di curare sempre con la stessa attenzione sia la persona di diciotto anni, sia la persona di novanta.
C'è un caso, riportato nelle fonti tradizionali, esemplare della contrarietà senza limitazioni di abbreviare la vita umana, che ci riporta ad un episodio storico del periodo romano che riguarda dieci vittime ebree, una delle quali, un grande Maestro, fu preso e messo sul rogo per esservi bruciato. I suoi allievi lo consigliavano di aprire la bocca perché pensavano che in tal modo sarebbe morto più rapidamente per le esalazioni del fumo ed avrebbe avuto minori sofferenze. La tradizione sostiene che il Maestro rispose ai suoi allievi: "No, è meglio che la vita me la tolga Colui che me l'ha data".
Si racconta ancora di un illustre Maestro italiano vissuto nel XIII secolo che sembra avesse inventato un veleno assolutamente efficace, indolore e di sapore particolarmente buono, che dava la morte nel modo migliore possibile. Dopo aver fatto questa invenzione, il Maestro distrusse la formula, per paura che potesse essere utilizzata da qualcuno in circostanze molto tristi o consigliata da qualcuno a qualcun altro per abbreviarne le sofferenze.
In ambiente egiziano un Maestro ebreo si oppose con tutte le sue forze ad una tradizione locale che stabiliva, quando moriva una donna gravida, di battere con bastoni la sua pancia per uccidere il feto che non aveva più alcuna possibilità di vita.
C'è chi vede però in tutti questi divieti di fare qualcosa per abbreviare la vita di qualcuno, delle possibili eccezioni.
Un rabbino molto autorevole sostiene che è permesso eliminare quelle cause che impediscono la morte di qualcuno quando non ci sia un intervento diretto nei confronti del malato.
Un autorevole Maestro del 1.600 dice che se sappiamo che il malato morirà entro poco tempo ed esteriormente c'è un rumore ritmico che potrebbe impedire al malato di morire, si può fare interrompere il rumore, così come si possono togliere dalla bocca del malato eventuali pezzetti di sale che si riteneva potessero impedirle la morte.
Tutti i Maestri sono invece d'accordo nel dire che ogni azione più o meno magica, che si ritenga possa in qualche modo abbreviare la vita, deve essere assolutamente condannata. Ci si riferisce a delle tradizioni, a delle superstizioni come, ad es., a quella in uso nei secoli XVI e XVII di mettere la chiave della Sinagoga vicino al letto del moribondo, quasi ad aprirgli le porte di questo mondo per facilitargli il passaggio all'altro mondo.
La norma legale sottolinea, infine, che nel caso di pena di morte si deve dare da bere al condannato qualcosa che lo inebri.
Per concludere, i principi generali dei nostri atteggiamenti nei confronti di chi sta per morire sono che abbiamo sempre ed in qualunque circostanza 1'obbligo di fare tutto quello che è possibile e l'impossibile per salvare qualcuno dalla morte, anche se le circostanze lasciano pensare che sia tutto inutile, anche se l'agonia è collegata a grandi sofferenze e anche se, comunque, si tratta di salvare una vita momentanea, anche di soli pochi minuti, ed il divieto assoluto di fare qualsiasi azione che possa accelerare la morte, anche di fronte ad una richiesta precisa del malato fatta sia sul momento sia prima, così come è assolutamente proibito al medico di consigliare al paziente, sotto qualunque forma, metodi per abbreviare la propria esistenza, anche in presenza di casi disperati.
Un problema importante che si pone dal punto di vista pratico e che viene dibattuto moltissimo anche oggi negli ospedali israeliani o dove il problema si pone, è come ci dobbiamo comportare nei confronti di chi vive, non per forza propria, ma perché collegato ad una macchina o a dispositivi che lo mantengono in vita artificialmente.
La tendenza è che sia possibile far uso di un dispositivo ad orologeria che interrompa il funzionamento della macchina ogni tanto per un certo numero di secondi e constatare cosa succeda. Se dopo una serie ragionevolmente lunga di questi esperimenti si è constatato che questo tale non ha la facoltà di continuare da solo, si può staccare la macchina.
Un altro problema è quello di quale debba essere il nostro atteggiamento circa la somministrazione all'ammalato grave di sostanze quali, ad es., la morfina, per alleviare il dolore. L'attuale interpretazione generalmente ammessa in campo ebraico, ma non da tutti, è che è ammessa la somministrazione di tali sostanze soltanto quando sia finalizzata esclusivamente ad alleviare il dolore e non ci sia nessuna possibilità che questa somministrazione possa direttamente diminuire la vita dell'individuo.
Si aggiunge ancora che il malato grave ha il permesso di pregare per la propria morte, ma un altro non può farlo, non può pregare Dio che abbrevi la vita,perché la vita non è nostra e non ne possiamo disporre. Il malato grave lo può fare perché non può essere giudicato per quanto fa in un momento di grandissima tensione emotiva o fisica, anche se fa una cosa che giuridicamente non è giusta.
Vorrei concludere con delle considerazioni, che oggi sono di grandissima moda, per determinare quale è il momento della morte di un individuo, giuridicamente accertata dal punto di vista ebraico..
E' un problema di grandissima importanza anche per la medicina,- oggi soprattutto per il problema dei trapianti, in quanto nella quasi generalità dei casi un trapianto di organi è possibile solo espiantandoli da un essere umano che abbia ancora determinate funzioni "in funzione".
Oggi la tendenza della moda attuale è quella di ritenere un tale morto quando il suo tracciato cerebrale è piatto.
Dal punto di vista ebraico la questione è molto più complessa. Un tale ebraicamente può essere dichiarato defunto quando ci sia una completa, documentata e assoluta cessazione delle funzioni cardiache, respiratorie e di reattività, tutte e tre insieme. Finché tutte queste tre cose non siano successe, la persona è assolutamente viva ed ha tutti i diritti e i doveri dell'essere umano vivo e nessuno può diminuirgli la sua collocazione in questo nostro mondo. Da ciò ne segue che dal punto di vista della legge ebraica , la maggior parte dei trapianti oggi sono proibiti.
Si discute molto su cosa voglia dire che la cessazione delle funzioni deve essere "documentata nel tempo". Si va dai più facilitanti ai più estremisti. I più facilitanti sostengono che i tre requisiti richiesti debbono essere documentati da almeno sei minuti, i meno facilitanti, invece, stabiliscono un periodo che va da un minimo di sei ore ad un massimo di dieci e questo blocca abbastanza la possibilità di trapianti.
Secondo la tradizione ebraica, il morto va sepolto al più presto possibile e nella forma più rapida e più semplice possibile.
Debbo aggiungere che vi è stato un regolamento interno, adottato nel 1974 in uno dei più grandi ospedali di Israele, nel quale una commissione interna costituita da medici ebrei e non ebrei, cristiani e mussulmani, ha stabilito che uno deve ritenersi morto agli effetti dell'espianto quando vi siano pupille dilatate e fisse, che non reagiscono agli stimoli luminosi, mancanza di qualsiasi reazione del sistema nervoso centrale, mancanza assoluta di tono ed altri requisiti per almeno quattro minuti, dopo aver staccato la macchina della respirazione che sia stata in funzione da almeno un'ora ed altre condizioni estremamente severe. Ci sono state discussioni su questo argomento, richiedendosi, fra l'altro, dal suddetto regolamento la ripetizione degli esami 12 ore dopo l'accertamento clinico della morte, in quanto la tradizione ebraica sostiene che il non seppellire un cadavere rapidamente sia una forma di mancanza di rispetto nei suoi confronti. Tutto questo che ho detto non deve essere ritenuto come giurisprudenza attuale.
Concludo ricordando che ho esposto alcune considerazioni generali, poi, quando ci si dovesse trovare nel caso specifico, ognuno deve comportarsi con un approfondito esame delle fonti e soprattutto della propria coscienza. Non esiste, infatti, un metro al quale ci si possa adeguare sempre e dovunque.

(conferenza tenuta il 26 settembre 1991 a Forlì)


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