Giuseppe figlio - amicizia ec romagna

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Giuseppe figlio di Giacobbe e di Rachele
Rav Luciano Caro


Giacobbe viene definito dal testo sacro come un “abitatore delle tende”, cioè uno che stava sempre in casa. Ricordate? Viene anche detto che egli viveva un rapporto particolarmente intimo con la madre, la quale amava preparare cibi speciali. Mentre il fratello Esaù era molto diverso da lui per carattere. Giacobbe per tutta la vita ha cercato strade alternative per risolvere i problemi, strade non sempre oneste, dobbiamo dire! Ma è stato ripagato. Gli piaceva la vita semplice e tranquilla? Ha trovato la donna dei suoi sogni? Dio gli ha dato una vita molto complicata. E ha pagato, in qualche modo, tutti i suoi errori, fino alla lotta con quell’essere misterioso, quell’angelo; e proprio questo avvenimento gli ha fatto capire che la vita va affrontata in modo corretto. E da quel momento è cambiato il suo carattere, cosa attestata anche dal cambiamento del nome: da Ya’akov, da una radice che può anche voler dire “frodare” a Israel, cioè colui che “combatte con Dio”, sar-El. Nel senso di non arrendersi, di affrontare le cose direttamente.
Sappiamo che Giacobbe, prima di questo fatto, si era innamorato di Rachele, che egli voleva sposare, ma, ingannato più volte dallo suocero, si è trovato marito sì di Rachele, ma anche della sorella di lei, Lea e delle due ancelle. Se questa è vita tranquilla!?
Queste quattro mogli hanno cominciato ovviamente a partorire bambini e potete immaginare la confusione che doveva esserci in quella casa! La moglie amata, Rachele, sicuramente doveva far valere questo suo privilegio: “Sono io la moglie più amata!”; ma Lea, di rimando, certamente voleva affermare il fatto di essere stata lei la prima moglie di Giacobbe. Le due ancelle, parimenti, dovevano litigare per il privilegio di servire la donna più amata, o quella sposata per prima. E allo stesso modo doveva succedere per i figli; immaginate le discussioni: “Io sono figlio della prima moglie, mentre tu sei figlio della schiava!” e discorsi simili.
Il testo ci presenta Giacobbe che, ritornando dal lavoro, che già gli dava abbastanza preoccupazioni per gli inganni dello suocero che si approfittava di lui, si trovava ad essere oggetto di scambio fra le moglie, che facevano a gara con chi di esse egli dovesse passare la notte.
C’è il particolare che Ruben, figlio di Lea, aveva trovato dei fiori di mandragola e la madre li vende in cambio della possibilità di coricarsi con Giacobbe.
Il testo dice che Rachele, benché fosse la moglie più amata, non riusciva ad avere figli e solo dopo anni di preghiere, nasce finalmente Giuseppe. Il nome viene dato giocando sulle parole: Yosef può derivare da una radice, assàf, che vuol dire “togliere”, cioè: “Dio ha tolto la mia vergogna, dandomi un figlio”; ma può derivare anche dalla radice yasàf, che vuol dire”aggiungere”, ovvero: “Dio me ne aggiunga un altro!”.
Rachele avrà un altro figlio, Beniamino, dando alla luce il quale, però, perderà la vita.
Quindi i due figli della moglie amata sono Yosèf e Beniamino.
I maestri dicono che nel nome Giuseppe erano già adombrati vari fatti della vita di quest’uomo. Intanto, se prendete il nome Yosef, in ebraico esso è costituito dalla lettera yud, dalla samech, e dalla peh. Queste tre lettere possono costituire l’acronimo di quello che succederà nella vita di Giuseppe.
La prima, la yud, richiama “Ismaeliti”: Giuseppe è stato venduto dai fratelli agli Ismaeliti.
La samech fa venire in mente il termine “sofarìm”, cioè mercanti; parola usata dal testo biblico quando racconta che i fratelli vendettero Giuseppe a dei mercanti.
Finalmente la peh finale può evocare il nome Putifàr, il ministro egiziano che ha adottato Giuseppe; oppure può evocare anche Potifera, ovvero la moglie di lui, quella che ha tentato di sedurre Giuseppe.
Inoltre quel significato della radice yasàf, cioè “aggiungere”, se nella mente della madre Rachele voleva esprimere il suo desiderio che Dio le aggiungesse un altro figlio, nella mente di Giuseppe è diventato: “Io valgo di più, ho un valore aggiunto”.
Questo Giuseppe si inserisce, dunque, in una vita familiare già turbolenta, in cui tutti fanno degli sbagli e pagano per i loro sbagli fino a quando non capiscono e non cercano di rimediare.
Il testo ci presenta questo personaggio immediatamente come una persona antipatica. Siamo al capitolo 37 della Genesi, dove è detto che Giacobbe risiedeva nella terra di Canaan e Yosef aveva diciassette anni ed era pastore con i suoi pastori nel gregge ed era un giovane con i figli di Bi’la e i figli di Zilpà, mogli di suo padre e riportava Giuseppe le loro malevole parole al loro padre. Così il testo ci presenta la carta di identità di Giuseppe. Ma fate attenzione a una cosa: è strano che il testo biblico, sempre molto conciso, oltre a dire che lui aveva 17 anni, ripeta che Yosef era un ragazzo. Ma in verità a 17 anni non si è più tanto ragazzi! Na’ar, nell’ebraico, sta a indicare un ragazzo di 13 o 14 e non uno di 17! Insomma, sembra che il testo voglia sottintedere che Giuseppe fosse un po’ immaturo. Il testo dice anche che lui faceva il pastore con i figli delle due concubine del padre. Ci saremmo immaginati che lui stesse di più coi figli di Lea. Invece no! Il testo ci prende un po’ in giro perché usa un’espressione grammaticalmente scorretta, adoperando un accusativo, dove invece ci si aspetterebbe un complemento di compagnia, un con: Giuseppe faceva il pastore, non “con i figli di”, ma “pascolava i figli di Bi’la e di Zilpà”. Quasi a dire che lui stava con i figli delle schiave perché li pascolava lui, li guidava lui, faceva il capo; mentre i figli di Lea erano più grandi e lui non poteva fare il gradasso con loro.
In più amava fare la spia la padre.
Il testo dice anche che “suo padre amava Giuseppe più degli altri, poiché era per lui figlio della vecchiaia e gli ha fatto una tunica a strisce”. Io ho tradotto così, ma non so cosa voglia dire veramente.
Cosa vuol dire che Yosef era figlio della vecchiaia, mentre in realtà non era così. Al massimo doveva essere Beniamino il figlio della vecchiaia.
Il grande Rashì per cercare di spiegare questa espressione, va a disturbare la lingua greca, dicendo che il termine “zequnìm”, vecchiaia, evoca la parola greca “icona”, che vuol dire immagine. Quindi: il padre lo amava, perché vedeva in lui la propria immagine, si riconosceva in lui, o gli assomigliava, oppure la storia di lui aveva delle analogie con la storia di Giacobbe. Questo fratello, in contrasto coi fratelli, richiama il contrasto che Giacobbe aveva avuto con suo fratello. Giuseppe è nato con difficoltà, ma anche Giacobbe era nato da una madre, Rebecca, che lo aveva avuto solo dopo tanta difficoltà.
Si possono trovare ancora altre analogie.
Quindi Giacobbe lo amava perché si riconosceva in lui. Per questo gli ha fatto una tunica particolare, speciale. Il testo “tunica passìm”, ma cosa vuol dire questo passìm, che si trova solo qui? Io direi solo che era un vestito speciale. Attenzione perché questo vestito è stato la causa della discesa del popolo ebraico in Egitto; infatti i fratelli lo avevano potuto riconoscere da lontano, quando lui viene mandato da loro a portare il cibo, mentre erano a pascolare, proprio a causa di questo vestito particolare.
Andiamo avanti col testo: “I fratelli, vedendo che il padre amava lui più degli altri, lo odiavano e non potevano parlargli in pace”. Qui ci sono tre elementi: Giuseppe, il padre e i fratelli e di innocente non c’è nessuno! Lui era quello che era; il padre, anche se lo amava, non c’era bisogno di dimostrarlo!; i fratelli, per gelosia, odiano lui e tutte le volte che gli parlano, litigano.
Adesso vi prego di fare attenzione: “Giuseppe fece un sogno e lo raccontò ai fratelli. Ed essi aggiunsero ancora ad odiarlo”. Notiamo la presenza della radice yasàf.
Disse loro: “Ascoltate, vi prego, il sogno che ho fatto: Ecco noi stavamo legando dei covoni in mezzo al campo ed ecco il mio covone si alzava e stava eretto; i vostri covoni si mettevano in circolo e si prostravano al mio covone”.
Abbastanza chiaro, no?!
Notate anche come Giuseppe apre il discorso, con quel “Vi prego!”. Vado avanti: “I fratelli gli dissero: Vuoi forse regnare su di noi o dominare su dii noi? Aggiunsero ulteriore odio nei suoi confronti per i suoi sogni e per le sue parole”. Loro trovano sconveniente non solo il contenuto del sogno, ma anche il modo in cui lo racconta.
“Fece un altro sogno e lo raccontò ai suoi fratelli e disse: Ecco ho fatto un altro sogno! Ecco che il sole, la luna e 11 stelle si prostravano a me”. Ha fatto carriera, no?
Notate: il primo sogno era ambientato in un campo, ma ora questo Yosef è diventato cosmico! Nel primo sogno diceva che i covoni dei fratelli si prostravano al suo covone, ma qui c’è il verbo dell’adorazione, della prostrazione riferito direttamente a lui.
Avanti: “Lo raccontò a suo padre e ai suoi fratelli. Il padre lo sgridò e gli disse: Cos’è questo sogno che hai fatto? Dovremmo venire io, tua madre e i tuoi fratelli a prostrarsi davanti a te fino a terra? I fratelli erano gelosi di lui e il padre custodì la cosa”. C’è il verbo shamàr, custodire dentro di sé.
Avete visto come è montata la cosa? Dall’odio, che aumenta, fino alla gelosia, all’invidia.
La cosa importante è che sono i fratelli stessi a dare la spiegazione del sogno e gli chiedono: Vuoi forse regnare su di noi? Lo stesso avviene col secondo sogno, quando è il padre che dà l’interpretazione del sogno. Insomma, Giuseppe riceve l’interpretazione che si aspetta; fa dire agli altri ciò che pensa lui.
Ma è anche interessante notare una cosa sottile. Al secondo sogno i fratelli tacciono, perché hanno capito l’antifona; questa volta non reagiscono più davanti a lui e vanno loro stessi a raccontarlo al padre, che poi cade nella trappola, come era successo a loro col primo sogno.

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