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L'inizio della vita
(Rav Luciano Meir Caro)
Quando inizia la vita? Cos'è la vita? Sono problematiche molto difficili da affrontare.
Parto facendo alcune premesse. La prima è che l'ebraismo rifugge dalle frasi fatte, dalle definizioni altisonanti, alle quali noi occidentali siamo abituati; la tradizione ebraica preferisce affrontare caso per caso. Se prendete un testo di normativa ebraica, ben difficilmente troverete la regola generale, ma piuttosto una casistica che non finisce più, dalla quale si dovrebbe trarre la regola.
Quando enunciamo una regola generale, questa si fossilizza facilmente ed è poi difficile uscirne. Noi partiamo, invece, dal presupposto che non esistono due problemi che siano uguali e perciò ognuno va affrontato a sé. Abbiamo già accennato al fatto che ci sono i codici ebraici, però tutte le volte che un ebreo o un non ebreo ha un quesito da porre, è prescritto che ci si rivolga al rabbino, o a quello competente del territorio in cui il tale vive, o a quello che gli è più congeniale. Nel momento in cui egli rivolge la domanda al rabbino, implicitamente si impegna ad accettarne la risposta. Questo fa sì che lo stesso problema può presentare soluzioni diverse a seconda della persona che viene interpellata, perché ognuno ha la sua formazione e preparazione.
Quindi non posso dare una risposta alla domanda: Cos'è la vita?
In tutte le fonti ebraiche la vita è considerata un valore fondamentale, ma questo è talmente chiaro e certo che non c'è nemmeno bisogno di dirlo. Ci sono dei valori insiti nella natura umana, per i quali nemmeno il testo biblico entra nei particolari, perché non ce n'è bisogno. Faccio un esempio: il testo biblico è molto ricco di particolari per quanto riguarda la normativa dei doveri dei figli verso i genitori, ma non dice assolutamente niente sui doveri dei genitori verso i figli, perché è già implicito.
Lo stesso vale per quanto riguarda la vita. Una delle prime disposizioni del testo biblico è il famoso: "Fruttificate e moltiplicatevi". Noi esseri umani siamo tenuti a mettere al mondo altri esseri. Poi ci sono alcune disposizioni qua e là che ci danno alcune indicazioni. Ve ne leggo una: "L'Eterno parlò a Mosè dicendo: parla ai figli di Israele e dirai loro: Io sono l'Eterno vostro Dio. Come le azioni della terra d'Egitto nella quale avete abitato, non dovete fare e come le azioni della terra di Canaan nella quale vi sto portando, non farete e non seguirete i loro costumi. Le mie leggi osserverete e metterete in pratica i miei statuti per seguirlo. Io sono l'Eterno vostro Dio. Osserverete i miei statuti e le mie leggi che l'uomo li deve mettere in pratica e vivrà in essi" (Levitico 18). Cosa vuol dire: "E vivrà in essi"? Noi dobbiamo mettere in pratica le leggi di Dio, ma lo scopo di questo è quello di vivere. Viene intravista dai nostri maestri, in questa espressione, come valorizzazione della vita. Di qui noi impariamo che tutte le volte che ci troviamo nell'alternativa di mettere in pratica una norma o salvaguardare una vita, dobbiamo prima salvaguardare la vita. La vita in senso generale: la mia e quella degli altri. Faccio un esempio banalissimo. Noi abbiamo delle norme alimentare molto dettagliate; nel caso che sia certificato che io per salvaguardare la mia vita, devo contravvenire alle norme alimentari, non solo posso farlo, ma devo farlo.
In altri punti, soprattutto nel Deuteronomio, è detto in modo esplicito: "Ho messo davanti a te la morte e la vita; scegli la vita". Questo ci viene dato come precetto positivo.
Altrove si dice: "Custodite bene la vostra esistenza".
Quindi noi dobbiamo salvaguardare la nostra vita a tutti i costi. Aggiungo un particolare. Secondo la normativa, io devo salvaguardare la mia esistenza o quella di altri anche a discapito della norma, sempre, fatta eccezione che in tre casi: l'atto idolatrino, l'omicidio, l'incesto. In questi casi diventa più importante la legge; se sono messo nella condizione tragica di dover scegliere tra la mia vita e l'idolatria, o tra la mia vita e quella di un altro, o ancora tra la mia vita e un atto di incesto, io devo sacrificare la mia stessa vita pur di non compiere uno di questi atti.
Vi ricordo l'esperienza del grande Maimonide, quando gli ebrei dello Yemen gli chiesero se dovessero accettare o no le imposizioni delle autorità islamiche che li costringevano all'islamizzazione, pena la morte. E lui rispose, ben consapevole che dalla sua risposta dipendeva la vita di migliaia di persone, dicendo di fare tutto il possibile per venir fuori da quella situazione, di accettare l'islam se non avessero potuto far diversamente e comunque di cercare di fuggire di là al più presto.
Esiste un altro passo del Deuteronomio che ci pone un caso specifico, di questo genere: il caso del rodéf, l'inseguitore. Se io vedo due persone che si inseguono e ho la percezione che l'inseguitore intenda ammazzare l'altro, magari perché ha un'arma in mano, se ho la possibilità di intervenire, non devo stare indifferente. L'indifferenza sarebbe la cosa più facile: "Io cosa c'entro? E' Dio che deve far giustizia, non io. Non devo mettermi al posto di Dio". Invece il testo biblico dice che devo intervenire, in qualunque modo. Se posso fermare l'inseguitore e parlargli, devo fare di tutto per tentare questa strada, ma se non ho altra alternativa, devo ucciderlo.
Questa cosa viene evocata da qualcuno in modo opportunista al massimo. Ad es. nel caso dell'assassinio di Rabin. Qualcuno cerca di giustificare la cosa dicendo che Rabin stava prendendo delle decisioni politiche che avrebbero messo a repentaglio la vita degli ebrei. Ma il testo non parla di questo. Quante volte il testo biblico viene strumentalizzato!
E' significativo che i testi della tradizione dicono che quando avviene un processo di carattere penale, dove sono fondamentali i testimoni, mentre tutto il resto è secondario, anche le prove e le confessioni, prima di interrogare i testimoni, il giudice deve avvisarli che essi stanno per fornire una testimonianza che potrebbe, al limite, portare alla condanna a morte di qualcuno. Dunque nel caso in cui la testimonianza sia sincera, devono darla, ma nel caso contrario devono astenersi, perché loro hanno in mano non solo la vita dell'imputato, ma anche di quella della sua discendenza per tutta l'eternità. Perché chi uccide una persona, è come se avesse distrutto l'universo e chi salva una persona è come se avesse salvato l'universo.
I medici hanno l'obbligo di esercitare la loro professione, perché possono salvare la vita; se un medico può intervenire, può esercitare la sua professione e non lo fa, è considerato come una specie di assassino, perché può salvare una vita e non lo fa; ha una responsabilità molto grande, perché p considerato come un inviato di Dio.
Allo stesso modo tutti noi abbiamo l'obbligo di fare di tutto per salvare la vita di un altro. Per esempio, quanta gente muore di fame; forse, se ci fossimo mossi in un certo modo, almeno una vita si sarebbe salvata.
La nostra vita umana è qualcosa che non ha nessuna limitazione e nessuna misura. Cioè non posso mai dire di aver fatto abbastanza verso una persona, anche fosse un malvagio o un anziano malatissimo. No, io devo continuare a difendere la vita a tutti costi. I nostri maestri arrivano a dire che un bambino di un giorno di età è superiore al re Davide morto e dire il re Davide è dire il massimo, l'insuperabile.
Qual è l'atteggiamento giuridico nei confronti di chi assiste alla caduta di un bambino dal ventesimo piano, che quindi presumibilmente nel giro di pochi secondi morirà. Dico questo, ma posso fare altri esempi. Davanti a un essere umano, che per certissimo sta per morire, io non posso intervenire e ucciderlo, magari per abbreviargli la sofferenza e se lo faccio, sono considerato un assassino.
Un'altra frase talmudica dice che se un tale è in pericolo di vita, si deve fare qualunque cosa per salvarlo e chi domandasse come ci si deve comportare, moralmente è un assassino. Tant'è vero che si arriva alla conclusione che un malato, sicuro che i suoi medici gli abbiano detto che non può assolutamente fare digiuno il giorno di kippur, ma lui lo stesso vuole digiunare, viene considerato un peccatore, perché mette a repentaglio la sua vita, che non è di sua proprietà. Il concetto dell'abnegazione, del sacrificio della vita, non c'è nella nostra tradizione.
Quando comincia la vita? Noi questo non lo sappiamo. Le nostre fonti sono particolarmente carenti in questo senso. C'è una casistica che riguarda soprattutto l'aborto. Se una donna abortisce, è un assassinio o no? Oppure le pratiche contraccettive. Qualche volta nel passato ci si poneva il problema se salvare la madre incinta o il figlio, nel caso di malattia o di incidente.
Nel libro dell'Esodo c'è un passo che parla del caso in cui uno percuote un altro e questi non muore subito, ma solo qualche giorno dopo. Allora chi ha colpito, è un assassino oppure no? Siamo al cap. 21 di esodo. Quando due uomini stanno lottando violentemente e danno una spinta a una donna incinta, la quale cade e lei partorisce prematuramente, il responsabile deve essere punito a seconda della richiesta del marito della donna e comunque la cosa va valutata dai giudici. Il testo dice che, se c'è una morte, o del bambino o della donna, allora si deve applicare la norma dell'omicidio.
La normativa successiva, che funziona ancora oggi, affronta questo problema, chiedendosi quand'è che l'essere umano è considerato vivo e quindi chi lo uccide è un assassino. Il feto che esce dal copro della madre è considerato un essere umano a tutti gli effetti, nel momento in cui è fuoriuscito dal corpo della madre almeno il capo del bambino, di modo che ci si possa accorgere che è un bambino e che si muove. Prima di quel momento la sua vita non è tutelata come essere umano, ma è un'altra cosa. Non significa che bisogna sopprimere i feti. Il farlo è considerata una cosa assolutamente proibita, però non è omicidio, ma un altro tipo di errore e prevaricazione.
Qual è la situazione di una donna che è fecondata? Quand'è che si può cominciare a parlare di bambino? Il problema è importante, perché ci si domanda che cosa sia il bambino fino al momento in cui esce dal grembo. Non è una persona, ma è una persona in potenza, potrà diventare una persona e se noi lo sopprimiamo, veniamo meno al suo diritto di nascere. Qualcuno dice, invece, che il bambino, finché è nel corpo della madre non ha assolutamente la sua individualità, ma è considerato come un organo di sua madre, come un qualsiasi altro organo, una gamba, per esempio. Filosoficamente il problema è questo: il bambino ha una sua individualità fino al momento in cui nasce? Se non ce l'ha, il problema non si pone. L'aborto è proibito, ma non è un omicidio. E se il bambino ha l'individualità, quando comincia? Le nostre fonti sono abbastanza confuse. Siamo nel Talmud e quindi si può dire tutto e il contrario di tutto. Si dice che nei primi tre giorni dal concepimento, quel grumo di cellule è una cosa assolutamente irrilevante. Nei primi quaranta giorni dal concepimento questa cosa è considerata come un liquido presente dentro il corpo della madre, senza alcuna individualità. Il bambino comincia a prendere delle forme dopo i primi quaranta giorni.
E il taglio cesareo si può fare? No, nemmeno per salvare il bambino, perché noi abbiamo davanti a noi due vite: quella della madre, che ci sta davanti e quella del bambino, che ancora non si vede, che ancora non c'è, ma ci sarà. Quindi propendiamo a salvare quello che c'è e non quello che ci sarà.
Ci sono altri aspetti di cui bisogna tener conto nel momento in cui ci si trova davanti a un caso specifico. Una delle cose di cui si tiene conto è questa: la tradizione ebraica dice che è ebreo chiunque nasca da una donna ebrea. Ci si domanda: e se una donna incinta si sottopone alle procedure per diventare ebrea, il bambino che porta in sé, diventa ebreo o no? Sì, perché il bambino è una parte di lei. Ancora. Attenzione. Una donna incinta è condannata a morte e si sta pere seguire la sentenza. Bisogna aspettare che nasca il bambino o no? Non si aspetta, ma si ammazza così: quel che c'è, c'è. Però nel caso in cui la donna abbia i primi sentori dei dolori del parto e sembra imminente la nascita, si aspetta che partorisca. Un altro elemento che fa pensare; tutte casistiche, no? C'è una norma presa dal libro dell'Esodo, che dice che chi rapisce una persona e poi la rivende o se ne serve, anche solo imponendogli di fare qualcosa con la violenza, costui è reo di morte. E' ovvio che è escluso il ratto di persone per motivi di amore. Viene posto il problema: se io rapisco una donna incinta ed estraggo il feto dal suo utero, magari per venderlo, sono considerato un rapitore o no? Io non ho fatto violenza alla persona, ma le ho sottratto il feto? La normativa dice che, in questo caso, io sono un rapitore, anche se fino adesso abbiamo detto che il feto non è ancora una persona.
Cosa possiamo fare con degli embrioni non arrivati a maturazione? Si possono utilizzare a scopi di studio o no? Se è possibile non si adoperano, ma vanno seppelliti, ma nel caso che dallo studio di questo materiale si possa risalire alla cura di determinate malattie che possono salvare vite umane, allora sì. Non lo potrei fare per prendere il premio nobel.
Gli ebrei oggi sono in una situazione anomala, perché la nostra normativa ha avuto uno sviluppo normale, nel senso che nei tempi antichi c'era il sinedrio, un organo che aveva il compito di vigilare sulla normativa; ma il sinedrio ha cessato di esistere da almeno 1200 anni, quindi non abbiamo più qualcuno che ci istruisca sulle norme. Abbiamo una serie di casistiche con delle risposte variegate. I maestri si possono consultare fra di loro, ma questo significa che poi ci sono risposte diverse a seconda del maestro. Oggi la scienza e la tecnica hanno un progresso talmente veloce, che noi rimaniamo sempre un passo indietro, perché facciamo un po' fatica, a volte, a trovare le risposte adeguate in tempo utile. Non ci mancano gli studiosi e gli esperti, ma abbiamo questa carenza della mancanza di un qualcuno che ci dia delle risposte sicure ai problemi.
Lo stesso problema che ci facciamo nei confronti della vita, ce lo poniamo anche per la morte. Quand'è che un tale è morto? La nostra normativa dà delle risposte formulate in un tempo i cui non c'era l'elettrocardiogramma, ecc. E' logico, sì, ma non basta. Dice la normativa che un tale è morto quando smette di respirare. Poi si approfondisce e si dice che bisogna che siano cessate le funzioni cardiache e respiratorie; ma bisogna anche che questa cessazione sia certificata e valutata nel tempo. Non basta che si senta che il cuore non batte. Deve passare un certo periodo di tempo in cui queste funzioni non vengono più esercitate. Qualcuno parla di mezz'ora, qualcuno di sei minuti. Attualmente è stato aggiunto un altro elemento, cioè la messa in opera dei dispositivi che ci sono, capaci di certificare che il cuore non batte; ma non basta ancora, perché bisogna staccare lo strumento e poi riattaccarlo e devono passare almeno sei minuti.
Comunque siamo in difficoltà, perché non c'è nessuno che dica: "Oggi si fa così". Per noi la situazione è delicata, soprattutto per chi deve prendere delle decisioni e dare delle indicazioni su questi problemi. In Italia noi siamo abbastanza fortunati, perché non ci mancano i rabbini medici; ad es. il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni è un espertissimo medico e un espertissimo conoscitore della normativa ebraica.
Spero di avere risposto almeno in parte alle vostre curiosità, ma come avrete capito, c'è abbastanza confusione su questi temi.