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Il libro di Kohelet
(Rav Luciano Meir Caro)
A mio avviso il Kohelet è uno dei libri più stimolanti e provocatori di tutta la sacra Scrittura, pieno di contraddizioni e problematiche, pieno di domande, a cui tante volte non dà risposta.
Questo libricino fa parte delle cosiddette Meghillot, comprese nel gruppo degli Agiografi, cioè tutti quei libri sacri che non sono né la Torah, né i profeti. C'è da dire che questi testi agiografici sono stati scritti in tempi diversi, da autori diversi e trattano argomenti diversissimi tra loro; c'è della poesia, della filosofia, della storia. Anche il libro dei salmi, dei Proverbi, il libro di Giobbe e così via appartengono al gruppo degli Agiografi.
Torniamo alle nostre Meghillot, cioè "rotoli", ovvero quei cinque libri conservati ancora oggi sotto forma di rotolo, secondo la struttura antica della conservazione del libro; sono libri particolari, perché, secondo una tradizione antichissima, vengono adoperati liturgicamente dagli Ebrei in determinate circostanze. Velocemente ve li elenco: Cantico dei Cantici, Rut, Ester, Lamentazioni e Kohelet. Il Cantico viene letto da alcune comunità tutti i sabati e da altre solo per Pesach, perché presenta molte scene primaverili, ricche di fiori, alberi, acque, colline, ecc.
Il libro di Ester è letto a Purìm; il libro di Rut a Shavuòt, la festa che celebra la promulgazione del decalogo; le Lamentazioni sono lette in occasione del 9 di Av, nella ricorrenza in cui si ricorda la distruzione del primo santuario di Gerusalemme ad opera dei babilonesi circa 600 anni prima dell'era volgare e la distruzione del secondo santuario ad opera dei Romani nel 70 dell'era volgare.
Il nostro Kohelet, invece, viene letto in occasione della festa di Succòt. Perché? L'interpretazione più superficiale è che era rimasta l'unica meghillà priva della sua festa nella quale leggerla, così come anche era rimasta l'unica grande festa di pellegrinaggio senza un testo proprio e cioè Succòt. Qualcuno sostiene un'altra ipotesi. Siccome il libro del Kohelet viene interpretato come molto pessimista, perché l'autore sostiene che tutto è inutile, non c'è scopo in quello che facciamo, ecc., allora, cadendo la festa di Succòt in autunno, stagione che porta con sé malinconia e tristezza, sembrava proprio il momento più adatto per leggerlo.
Io non sono assolutamente d'accordo e sostengo un'altra teoria. Sembra che nel corso del libro l'autore ci dica che tutto quello che facciamo è inutile, ci procura sofferenza e disagio; l'unico rimedio che ci potrebbe essere è l'allegria, unica realtà positiva nella vita. Orbene, durante la festa di Succòt c'è l'imposizione di essere allegri ed è l'unica festa della Torah che porta con sé questa caratteristica: il dovere di essere allegri. Se un tale celebra la festa di Succòt e adempie tutti i riti, rievocando tutti gli elementi propri di questa festa: le capanne che ricordano il soggiorno degli Ebrei nel deserto, la vendemmia, la frutta, ecc., ma non è allegro in questa festa, non ha adempiuto tutti i suoi doveri.
Facile da dirsi, ma come si fa ad essere allegri? Da dove scaturisce l'allegria? I maestri, che sono molto realisti, dicono che l'allegria vera, che è la gioia intima, si consegue rendendo allegri gli altri e quindi bisogna aiutare i più poveri, far sorridere chi è triste, ecc.
Allora, torniamo a considerare il nostro testo, che, fra l'altro presenta problemi di ogni genere. Intanto: chi l'ha scritto? La tradizione sostiene che l'autore sia Salomone, ma credo che ci siano ben poche probabilità che ciò sia vero.
Il libro comincia così: "Parole di Kohelet, figlio di Davìd, re a Gerusalemme". Il termine Kohelet sembra che derivi da una radice che vuol dire "riunire", "tenere insieme", perciò Kohelet potrebbe essere "il predicatore", colui che riunisce la gente per parlare loro.
Però ci chiediamo chi sia in realtà questo Kohelet - predicatore; potrebbe anche essere figlio di Davide, che davvero è stato re di Gerusalemme, ma quale dei figli di Davide? Perché proprio Salomone e non un altro? In ogni modo tutto lascia pensare che non sia affatto Salomone: lo stile, le idee, il linguaggio.
La tradizione ebraica vuole che Salomone, il grande sapiente, abbia scritto tre libri biblici: il Cantico, che parla dell'amore e lo avrebbe scritto nella giovane età; il libro dei proverbi in età matura e infine il Kohelet, nella sua vecchiaia, quando era più saggio, più pessimista, ecc.
Non dimenticate che tutto quello che sto dicendo è problematico, perché potrebbe essere in un modo o in un altro. Ad ogni versetto, io mi domando se l'autore mi stia proponendo delle affermazioni o facendo delle domande. Si crea un continuo dibattito interno, alla lettura di queste pagine e a volte si ha perfino l'impressione di essere presi in giro. E viene da chiedersi cosa voglia da noi che leggiamo, questo libro, o cosa voglia insegnarci. E' provocatorio davvero e per questo è molto bello. Tra l'altro questo è lo specchio della grande libertà di pensiero che ha sempre regnato nella tradizione, nella cultura ebraica. Ci pensate? E' stato riconosciuto come sacro un libro che sembra contestare tutti i principi dell'ebraismo.
Andiamo avanti. Il libro si presenta così: l'autore, presentandosi come Salomone, mostra le sue credenziali, che gli conferiscono u enorme autorità. E dice che a un certo punto della sua vita si è posto il problema di come si possa conseguire la felicità nella vita. Con molta serietà di intenti, fa degli esperimenti. Prima tenta di accumulare ricchezze, ma scopre che non è questa la via. Per tutta una vita si soffre e si combatte per accumulare ricchezze, ma ad ogni traguardo, si sente ancora il vuoto, insoddisfazione e allora bisogna lottare ancora e si ha sempre sete. Peggio ancora se succede che il figlio, al quale rimane tutta l'eredità, la sperperi malamente in brevissimo tempo.
Poi tenta col cercare soddisfazione nel cibo: ma nemmeno qui trova gioia, perché se uno ha fame, mangia volentieri di tutto, anche se non è un cibo raffinato e se uno non ha fame, non è attirato nemmeno dai manicaretti più squisiti. Per non dire, poi, dei problemi legati ad una alimentazione smodata.
E va avanti di questo passo, sempre sperimentando. Tenta con il voler lasciare una traccia di sé e racconta di essersi messo a costruire grandi palazzi, edifici sontuosi, così che, alla sua morte, tutti si sarebbero ricordati di lui. Ma in realtà non è così, perché quando uno muore, dopo due o tre generazioni, è completamente dimenticato. Agli altri cosa importa, alla fine, di te?
Vado alla svelta. Prosegue nella sua ricerca e tenta la via della saggezza, della scienza, della conoscenza. Ma anche questo è un inganno: perché non solo la conoscenza non dà la felicità, ma più si sa, più si soffre. Anche per il fatto che, a mano a mano che si approfondisce il proprio scibile, ci si accorge di essere sempre più ignoranti. Per una cosa che si studia, ce ne sono centinaia che non si sanno.
A questo punto l'autore si accorge che nemmeno il rimanere nell'ignoranza dà la felicità, perché il Signore Dio ha instillato in noi un desiderio di sapere. Quindi, se non so, voglio sapere e quando comincio a studiare, mi accorgo che non arrivo da nessuna parte.
Alla fine arriva alla conclusione che è l'allegria che può dare non la felicità, ma almeno un po' meno infelicità. Ma anche l'essere allegri è un dono di Dio: se Dio mi dà questa facoltà, bene, ma se non me la dà, io da me stesso non posso procurarmela.
E finalmente la conclusione del libro, che, fra l'altro, sembra anche un'aggiunta di un altro autore, con la quale si voleva dare un tono più religioso al libro. Dice così: la felicità non esiste, ma possiamo darci da fare per conseguire una misura minore di infelicità. E come? Godere di tutto quello che la vita dà di buono - ovviamente non delle cose cattive, che poi portano rimorso e tormento - quando lo si può fare. Perché, se si arriva alla tarda età e non si può più godere di certe cose, almeno rimane la soddisfazione di averle conosciute e godute prima; mentre se, voltandosi indietro e ripensando a tutta la propria vita si deve constatare che quelle cose che adesso non sono più godibili, nemmeno prima si erano mai sperimentate, allora l'infelicità è ancora maggiore.
Ancora più chiaramente, la conclusione che il Kohelet ci offre è questa: temi Dio, fai il bene che puoi fare ed evita il male. Questa non è la felicità, ma il minimo di infelicità: si è goduto di quel bene possibile, si è fatto tutto ciò che era possibile fare di buono e non si è fatto il male.
Ripeto, non sappiamo se questa conclusione sia dello stesso autore del libro e sia stata aggiunta in seguito, perché il testo era troppo provocatorio e pessimista.
Fra le altre cose, troviamo una bellissima e drammatica descrizione della vecchiaia al cap. 12; vi invito a leggervela. Appaiono figure stupende per descrivere la situazione dell'uomo verso la fine della vita: i custodi della casa sono le gambe, le macine sono i denti, le luci delle finestre sono gli occhi, le porte sulla strada sono le orecchie, le coriste sono le corde vocali e bellissima la figura del mandorlo fiorito ad indicare i capelli che imbiancano.
Termina indicando la fine del corpo, che ritorna alla terra e dello spirito che, invece, si ricongiunge con Dio.
Non voglio soffermarmi su argomenti di carattere tecnico; accenno appena alcuni elementi. Gli studiosi sostengono che il Kohelet sia stato scritto attorno al IV-III sec. prima dell'era volgare, quindi deve essere uno degli ultimi libri del canone biblico. Dal punto di vista linguistico, rappresenta il passaggio dall'ebraico biblico all'ebraico post-biblico; per capirci parliamo dell'ebraico usato nella Mishnà o nel Talmud. Per es. ci sono delle parole che terminano in on, suffisso che non si trova mai nel testo biblico, ma in Kohelet sì; quindi abbiamo yitròn, "superiorità", o chisròn, "carenze". Oppure ci sono espressioni che richiamano molto l'aramaico; ad es. kvàr, che vuol dire "già", parola ormai entrata nell'ebraico moderno, ma che proviene dall'aramaico. Tant'è vero che qualcuno sostiene che la fonte originale del libro fosse aramaica e che sia stato tradotto solo successivamente in ebraico.
Mi fermo su una frase particolare, che dice così: "Chi sa se l'anima dell'uomo, quando muore, sale in cielo e quella dell'animale va per terra?". Non sappiamo cosa vuol dire. Ma noi sosteniamo che l'uomo, essendo dotato di anima, quando muore, sale al cielo; però non si capisce bene se il testo faccia una domanda o un'affermazione. Cioè pone un dubbio: "Chissà se è vero" o afferma che chi sa, chi conosce, sostiene questa verità riguardo all'anima dell'uomo.
Qualcuno pensa che il nostro Autore, così pieno di dubbio, presenti il suo libro sotto forme di dialogo fra due persone: un conservatore e un progressista, oppure un maestro, che sostiene determinati principi e valori e il suo allievo, che invece contesta.
E' un libro veramente straordinario; io lo leggo e lo rileggo, ho avuto occasione di insegnarlo più volte, ma mi trovo sempre perplesso e torno a chiedermi cosa voglia dirmi veramente.
E' l'espressione di un credente convinto, o di un uomo pieno di dubbi, oppure di tutti e due. La mia pseudo-conclusione potrebbero essere che il libro ci dà lo specchio della situazione umana del credente, che sottopone la sua fede continuamente a dei dubbi; il che è molto ebraico. Non vorrei offendere nessuno; è un'ipotesi quella che io formulo e cioè che il mondo cristiano è fondato sulla fede: "Credi e sarai salvato", mentre il mondo ebraico non impone una cosa del genere. Noi partiamo da certi presupposti, ma nessuno me li può imporre e il fato di non credere non mi sottrae alla salvezza. Il nostro modo di credere è il porsi dei dubbi. Un Dio che sia da credere e basta, è un Dio che non ci accontenta. Cos'è Dio? E' già tanto se posso avere qualche intuizione. Mi sembrerebbe quasi un atteggiamento di pigrizia accettare di credere e basta. Noi ci chiediamo se davvero crediamo o no; sarà proprio vero? Io credo profondamente in Dio, ma la mia fede è collegata a una quantità di elementi esterni a me che sono difficilmente valutabili e che influiscono sulla mia capacità di credere. La ricerca di Dio è dialettica, non finisce più. Il dire: "Credo in Dio" e basta è limitativo. Cosa vuol dire?
Io ricordo sempre il passo di Mosè, che ha visto Dio, ha avuto dei contatti con Dio, ma che, alla domanda di Dio di chiedergli quello che vuole, lui pone due domande, per noi incomprensibili, soprattutto se teniamo in considerazione il fatto che questo avviene subito dopo l'episodio del vitello d'oro, proprio quando Dio sta punendo il popolo per aver fatto un'immagine della divinità. Bene, Mosè, che salva il popolo dalla punizione, chiede a Dio: "Fammi conoscere le tue strade". Cosa vuol dire? E' come se dicesse a Dio di voler sapere dove Egli sia diretto, cosa vuole, quando ha creato il mondo cosa si aspettava. E poi chiede: "Fammi vedere il tuo volto". Ma come? Proprio nel contesto di una punizione per idolatria, Mosè, l'amico di Dio, chiede di vedere l'immagine di Dio? Allora non ha capito niente nemmeno lui! Non ha capito che Dio non si può vedere. Mosè, l'uomo che avuto la visione più diretta di Dio, ha dei dubbi; e Dio non lo punisce per questo e neanche lo contesta, anzi, direi quasi che Dio lo accompagna su questa strada, a confermare che Dio non vuole una fede che non sia dialettica. L'uomo deve soffrire per arrivare a Dio, alla conoscenza di Dio, che non si compra al supermercato.
Voglio notare ancora una cosa molto importante. Nel libro ci sono delle locuzioni caratteristiche che tornano sovente. Per es. l'espressione con cui il Kohelet ripete che tutto, a questo mondo, è "correre dietro il vento". Il mondo è ciclico e noi uomini non facciamo altro che correre dietro a qualcosa che non si consegue mai e che non si sa nemmeno cosa sia.
In più l'autore ripete spesso: "Sotto il sole" oppure "Sotto il cielo". Dunque, secondo l'ottica di chi sta sotto il cielo o sotto il sole, tutto è una fatica inutile, un correre vano, un consumarsi inutilmente. Forse questo lascia intravedere che c'è un altro modo di considerare le cose, un invito ad uscire da questa dinamica così terrena.
Vorrei darvi un piccolo esempio di come il testo biblico, a volte, viene manipolato in senso buono dai nostri maestri per poterne trarre i maggiori insegnamenti possibili. Molto spesso ci suggeriscono un'interpretazione assurda, proprio allo scopo di sollecitarci a trovare altre risposte nostre, cercando nel testo, leggendolo con maggiore attenzione. Vogliono spingerci a capire quanto sia difficile capire veramente e renderci consapevoli che chi dice di aver capito, è proprio quello che non ha capito niente. Se partiamo dal presupposto che i libri biblici sono di natura divina, sappiamo già che noi non potremo mai capire fino in fondo; possiamo studiare tutta una vita, ma non esauriremo mai la ricerca e la conoscenza.
Vi faccio, allora, un piccolo esempio usando un commento al salmo 92, che noi chiamiamo il "Salmo del Sabato" e che fa parte della liturgia ebraica del venerdì sera e del sabato mattina. Questo salmo comincia con queste parole: "Canto, salmo per il giorno del sabato" e poi dice tante belle cose che si adatterebbero a un sacco di situazioni che non hanno niente a che fare col sabato.
I nostri maestri, in uno dei tantissimi midrashìm, partono immaginandosi una domanda dell'allievo. Per esempio, in questo caso, abbiamo due termini molto simili, canto e salmo. Allora viene da chiedersi perché la Scrittura, che di solito è molto stringata, qui invece abbia bisogno di ripetere due volte quasi la stessa cosa.
Comunque, a questo punto, i maestri attirano la nostra attenzione sul sabato, citando un versetto dell'Esodo: "Fate attenzione, guardate che Dio vi ha dato il giorno di sabato". E allora, cosa ne ricavo? Attenzione: i maestri dicono: "Guardate" e poi :"fate attenzione"; vedete? Anche qui una ripetizione. Perciò si arriva a dire che tutto quello che riguarda il sabato è doppio. Ma voi non dovete prendere le cose così come vi vengono dette; dovete farvi delle domande, dovete controbattere, porre dei dubbi, dirmi che sono matto. Va bene?
Noi siamo abituati che, di sabato, venivano presentati due pani nel santuario e fatti due sacrifici: quello quotidiano e quello del sabato; quando facciamo la cena del venerdì sera, facciamo la benedizione su due pani; la punizione per chi trasgredisce il sabato è doppia, perché il testo dice che "chi trasgredisce il sabato morire sarà fatto morire" e anche il premio per chi lo osserva è doppio. Anche le indicazioni per l'osservanza del sabato sono doppie, nel testo sacro; una volta dice: "Ricordati del giorno del sabato" e dopo dice: "Osserva il giorno del sabato". Ma perché tutto questo?
Allora anche il canto è doppio! Bello, no? Ma c'è un'altra spiegazione. Bisogna considerare il testo del secondo versetto, cap. 1 del Kohelet, dove dice: "Soffio dei soffi, dice Kohelet", ovvero: "Vanità delle vanità… tutto è vanità". Ma cosa centra questo col sabato? Vi rendete conto della perplessità che nasce in chi ascolta tali spiegazioni?
In realtà, quante volte torna la parola vanità in questo versetto? Almeno 7, se consideriamo i plurali delle parole. Vi immaginate questo raccontato ai bambini, quanto sia sollecitante? Allora, cosa centra col sabato? Ci sono 7 vanità e quali sono? Cosa vogliamo spiegare? Sta parlando della creazione, i setti giorni della creazione. Noi ci diamo un sacco di arie, dicendo che Dio ha creato l'universo per noi; ma anche questo è tutta una vanità. Allora: tutto è vano compreso il sabato.
Il testo del midrash va avanti, continuando a rifarsi al racconto della creazione, finché arriva ad affermare che tutto, alla fine, sparirà.
Un altro elemento importante. Il sesto giorno Dio ha creato l'uomo, che finisce nella polvere. E nel settimo giorno ha creato il sabato. In realtà luomo è stato creato circa sei ore prima che iniziasse il sabato e in quelle sei ore ha fatto tutto: è stato creato, ha ricevuto degli ordini, li ha trasgrediti, è stato punito e Dio, all'inizio del sabato, aveva deciso di eliminarlo. A questo punto sarebbe intervenuto il Sabato a favore dell'uomo, impedendo a Dio di fare una cosa negativa proprio di Sabato, perché il Sabato non fosse il giorno della condanna dell'uomo. Grazie all'intervento del Sabato, l'uomo è stato perdonato e salvato. Torniamo al nostro salmo 92 e al suo incipit: "Canto salmo per il giorno del Sabato". Questo canto l'avrebbe intonato Adamo per ringraziare il Sabato di averlo salvato. Sì, tutto è vanità; l'uomo è vanità, il Sabato è vanità, ma anche il Sabato, che è vanità, ha salvato l'essere umano.
Vedete come si va a finire lontano?
Potremmo anche fare un altro discorso. Dio ha dato ad Adamo un unico ordine, ma si è comportato in modo scorretto - Dio mi perdoni di quello che sto dicendo - perché l'uomo non conosceva la differenza tra il bene e il male e perciò non sa che disobbedire è male. E poi gli aveva detto che sarebbe morto, sa avesse mangiato il frutto, ma Adamo non sapeva cos'era la morte. Quindi Dio dà un ordine a chi non è in grado di capirlo. Qualcuno dice che sia stata una scelta pilotata da Dio nei confronti dell'uomo; cioè gli ha dato l'ordine perché disobbedisse e così potesse insegnarli qualche cosa. Qual era l'alternativa per l'uomo? Era di stare nel giardino, stare senza mangiare del frutto dell'albero della conoscenza del bene e del male, ma a un certo punto avrebbe mangiato dell'albero della vita e avremmo avuto un uomo immortale, ma inconsapevole. La scelta è stata di diventare mortale, ma consapevole. Ed è Dio che ha sollecitato l'uomo a questo. Tutte queste sono ipotesi, mi raccomando. E se dite che avete capito, non avete capito niente. E' una strada in salita; è un cercare di penetrare nel testo per cercare di capire.