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Il libro delle Lamentazioni - Echà
(Rav Luciano Meir Caro)


Vi dico subito che il libro delle Lamentazioni non è particolarmente interessante, e non presenta cose che colpiscano per la forma o il contenuto, quando lo si legge. Questo libro fa parte della terza parte della Bibbia ebraica, quella che va sotto il nome di Ketuvìm, cioè gli Scritti, oppure, secondo il termine occidentale, gli Agiografi.
In questa raccolta si trovano una serie di libri che presentano argomenti diversi, come la poesia, la filosofia, la storia, saggezza popolare, ecc. e perciò sono stati messi insieme, non potendo riconoscerli in un filone preciso, come per es. poteva essere per i profeti.
In più, all'interno della raccolta degli Agiografi, ci sono cinque libricini, che stanno un po' per conto loro, che vanno sotto il nome di Meghillòt, che significa rotoli. Tutti i libri antichi sono stati scritti sotto forma di rotolo, ma questi cinque, in particolare, sono rimasti conosciuti così in modo più specifico, anche perché la tradizione ebraica, nel corso dei secoli, ha collegato la lettura di questi cinque libri, a feste specifiche.
Allora, in generale, fanno parte dei Ketuvìm i Salmi, i Proverbi, Giobbe, Ezra, Neemia, le Cronache e in particolare le cinque meghillòt sono: il Cantico dei Cantici, Ester, che viene letto in occasione della ricorrenza di Purìm, in cui si celebra la gioia immensa per il fatto che il piano di sterminio contro gli Ebrei, perpetrato dal persecutore di turno, Amàn, non è andato a buon fine, proprio grazie all'intercessione della regina Ester presso il re di Persia Assuero. Il Cantico dei Cantici, invece, viene letto in occasioni diverse. C'è chi lo legge tutti i venerdì sera o il sabato, quindi 54 volte all'anno, perché si parla dello sposo e della sposa e sapete che nella mistica ebraica, di Safèd soprattutto, il Sabato è identificato con la sposa. Altre tradizioni sostengono che il Cantico vada letto, invece, in occasione della Pasqua, perché nel libro ci sono molte descrizioni del fiorire della natura, come anche Pesach cade in primavera, quando tutta la natura comincia a risvegliarsi e a fiorire.
Ma vado avanti. Alle cinque meghillòt appartiene anche il libro di Rut, che viene letto in occasione della Festa di Shavuòt o delle Settimane, festa nella quale celebriamo le primizie, ma anche la promulgazione del Decalogo. Il nesso è di carattere stagionale, perché Rut ci è presentata come spigolatrice sui campi di orzo, così come la festa di Shavuòt celebra la mietitura. Altro nesso è dato dal fatto che Rut, non ebrea di nascita, accetta di diventare Ebrea assumendo tutti gli obblighi che questa fede porta con sé, per chi la abbraccia.
Poi troviamo il Qohelet, forse il testo più provocatorio di tutto, in cui l'autore si pone il problema della felicità in questo modo, arrivando alla conclusione che la felicità non esiste, perché l'uomo è tormentato da una sete inestinguibile, che lo porta a desiderare sempre qualcos'altro. L'autore suggerisce che l'unica cosa possibile è cercare di diminuire almeno un po' l'infelicità. E come? Innanzi tutto non facendo del male, in modo da arrivare alla fine della vita con la coscienza pulita e poi non avendo rimpianti per il passato, nel senso che la vita ci offre una quantità di cose bellissime, molte delle quali sono permesse, altre proibite. Se quando siamo giovani abbiamo usufruito delle cose belle che la vita ci ha dato, quando siamo vecchi e non possiamo più godere di certe cose, almeno il pensiero di averle conosciute e godute, allevia un po' la pena di non poterne più usufruire.
Noi leggiamo questo libro, per disperazione, in occasione della festa di Succòt, la Festa delle Capanne, in autunno. Perché lo leggiamo in questa occasione? Intanto questo libro sembra pessimista, a una prima lettura, col ripetersi di quel suo ritornello: "Vanità delle vanità, tutto è vanità" e il pessimismo richiama l'autunno, così come Succòt cade di autunno. Qualcuno ha però un'altra teoria. Essere allegri dà felicità, ma sembra facile da dirsi; da dove si prende l'allegria? Essere allegri viene dall'essere contenti di ciò che abbiamo in questo mondo. Orbene, la festa di Succòt, è l'unica per la quale il testo biblico, impone di essere allegri. Ma come posso mettere in pratica questa cosa? Non si può imporre uno stato d'animo. I nostri maestri dicono che la vera allegria si consegue rendendo contenti gli altri. Ognuno deve guardarsi attorno e cercare di dare allegria a qualcun altro, con doni o con la vicinanza.
Rimane, così, l'ultima delle meghillòt: Echà. Questo è uno dei nomi con cui viene indicato questo testo, dalla sua prima parola. "Come mai sta così solitaria la città un tempo ricca di popolo?", parole riferite a Gerusalemme. Ci sono, però. altre denominazioni per indicare questo libro. Una è Kinnòt, che è il plurale di kinnà, che vuol dire lamentazione. Ma lamentazione non nel senso nostro, ma con una connotazione un po' diversa; si tratta, infatti, di elegie, che circolavano anche ad opera di professionisti, in occasione di eventi luttuosi, come la morte di qualcuno, o una malattia, una disgrazia. Insomma, una composizione poetica che aiuta a mettere in luce i sentimenti chiamati in causa in determinate circostanze.
Qualcuno lo chiama il Libro dei Treni, dal termine greco trenoi, lamentazioni.
Questo libro è costituito da cinque capitoli o kinnòt, in cui l'autore si lamenta di grandi disgrazie capitate al popolo ebraico, in particolare della caduta di Gerusalemme sotto il re Nabucodonosor, nel 580 prima dell'Era volgare.
Dobbiamo sempre tener conto, quando pensiamo alla storia biblica, che tutto è sempre girato attorno al grande conflitto tra le due grandi potenze contrapposte: il regno di Persia, quindi Iran Iraq più o meno a oriente e l'Egitto a Occidente. Non capiamo la storia biblica, se non teniamo presente che queste due grandi potenze non hanno fatto altro che configgere tra di loro per circa 4000 anni. E Israele si è trovato nel mezzo tra questi due immensi poteri contrapposti.
L'impero orientale, costituito originariamente dai Sumeri, poi sono arrivati gli Assiri, poi i Babilonesi, poi i Persiani, riteneva di avere il diritto di dominare su tutto il vicino Oriente.
Quindi, dal punto di vista di un personaggio che 3000 anni fa abitava sull'Eufrate, il territorio palestinese o quello della Fenicia, dell'attuale Libano, non era altro che una colonia sul mare, era casa sua. E lo stesso dicasi per l'Egitto; pensava di avere il dominio assoluto sul vicino Oriente, quanto meno fino all'Eufrate. Quindi quando si parlava del territorio ebraico, o dell'attuale Giordania o Siria, gli Egiziani pensavano subito che quelli erano loro possedimenti. Poi, a seconda delle circostanze, una o l'altra potenza, aveva la preminenza. Ma anche oggi, se ci pensate, l'Iran si pone nella stessa posizione e lo stesso fa l'Egitto, che ritiene di avere una specie di diritto divino di gestire le cose.
A un certo punto, nel 590 a.E.v, il piccolo regno di Giuda, un qualche cosa di minuscolo, come può essere, diciamo, la provincia di Ravenna, entra in una coalizione anti-babilonese. Ma questa coalizione, sobillata dall'Egitto, ha avuto la peggio e così Nabucodonosor ha invaso Giuda, ha distrutto Gerusalemme, ha saccheggiato il tempio e ha deportato la popolazione, o almeno la parte più significativa del popolo ebraico.
Dunque i capitoli del libro delle Lamentazioni e in particolare il primo, esprimono proprio il lamento davanti a questa situazione di disfatta completa. Il discorso è abbastanza trasparente e fa pensare in modo diretto a questo momento storico, alla distruzione da parte di Nabucodonosor, avvenuta il 9 del mese di Av del 586 a.E.v e questo giorno è rimasto un giorno di digiuno importante, il più severo di tutta la tradizione ebraica. La sera dell'inizio del digiuno e la mattina del digiuno, in questo giorno, noi leggiamo il testo di Echa, anche con modalità interessanti. Le sinagoghe sono illuminate solo da luci di candela; non ci siede sulle sedie, ma per terra e si leggono questi testi in forma corale.
Il primo capitolo descrive proprio Zion e si ha l'impressione che l'autore abbia visto da vicino la devastazione della Città; mentre gli altri capitoli presentano tematiche un po' scollegate da quelle del primo capitolo, probabilmente perché sono stati scritti in momenti diversi o anche da altri autori. Nel secondo capitolo si coglie un carattere più teologico, come se si volesse far passare il messaggio che quanto è avvenuto, è dovuto alla infedeltà del popolo ebraico, che non ha rispettato l'alleanza col suo Dio.
Il terzo capitolo, la terza lamentazione, invece, vede le cose nell'ottica del singolo, dell'individuo, che non dà una descrizione di quanto vede attorno a sé, quanto piuttosto della sua situazione di profugo.
Le ultime due lamentazioni sono preghiere, che esprimono anche la speranza di poter ricominciare da capo e tornare a Dio.
La tradizione attribuisce la paternità di questo libro al profeta Geremia, che ha assistito alla distruzione di Gerusalemme, come anche gli eventi precedenti.
Fra l'altro a me è molto cara la figura di questo profeta, anche perché ha costituito l'oggetto della mia tesi. Un profeta un po' bizzarro, nel senso positivo del termine, perché fa il profeta, ma contro la sua volontà. Dio gli rivela il suo destino, la sua vocazione ad essere profeta, fin dall'utero di sua madre, ma lui subisce questa imposizione da parte di Dio. In quanto profeta, tocca proprio a lui annunciare al popolo la distruzione che sta per accadere. Usa delle espressioni molto forti anche nei confronti di Dio.
Geremia proclama ai capi che non bisogna ribellarsi al potere babilonese, per tanti motivi; prima di tutto perché Babilonia rappresenta la punizione per l'infedeltà del popolo, poi perché fare guerra contro Babilonia significa per Israele finire devastato, perché è come se San Marino volesse fare la guerra contro gli Stati Uniti. Ma il problema non è tanto questo, dice Geremia; il vero problema è che Israele era sobillato dall'Egitto, che vuole usare Israele per i suoi interessi. Geremia suggerisce di subire piuttosto il potere di Babilonia, ma rimanere fuori da qualsiasi coalizione.
Che senso ha rischiare la vita del nostro popolo, dice Geremia, davanti a un popolo, che comunque cadrà da solo, perché tutti i popoli sono strumenti nelle mani di Dio. Tutti i popoli, Israele compreso, dovranno bere il calice amaro dei propri peccati e anche Babilonia lo berrà, ma per ultimo. Babilonia è il regime che tormenta di più ed è quello che soffrirà di più. Geremia dà una rilettura della storia come una successione di eventi, in qualche modo, guidati da Dio. Per tutto questo, Geremia continuava ad esortare il popolo a non immischiarsi in coalizioni inutili. Questo suo annuncio gli è costato la prigione, perché veniva considerato come un disfattista. Il re in persona l'ha fatto imprigionare, salvo poi che lo andava a interrogare di nascosto.
Mi collego alla figura di Ioshihàu, Giosia, che ha voluto opporsi all'esercito egiziano, che voleva passare per Israele per andare a combattere contro Babilonia. Non sapendo cosa fare, il re si era rivolto a una profetessa, chiedendole come sarebbe morto e lei gli risponde che sarebbe morto nel suo letto. Così lui è andato a far la guerra, mentre Geremia gli diceva di star fuori dalla guerra; ma lui è stato ferito, l'hanno trasportato a Gerusalemme ed è morto nel suo letto. Questa è l'ironia del testo biblico, che vuole dirci che la profezia ci dà risposte, che noi non possiamo capire.
Qualcuno dice che la prima Lamentazione potrebbe essere stata composta non per la distruzione dei Gerusalemme, ma per la morte del re Giosia, morte che ha provocato un momento di grande costernazione e confusione. Cosa poteva fare un popolo senza il suo re, con una potenza babilonese sul collo che stava sempre più acquistando forza?
Giosia aveva tre figli, di tendenze politiche una diversa dall'altro. Gli Egiziani avevano potere sullo stato ebraico, ma non hanno voluto strafare, anche perché avevano problemi grossissimi a livello internazionale e hanno messo sul trono uno dei figli di Giosia, quello favorevole al partito filo-egiziano, in contrasto con gli altri due figli, uno dei quali favorevole al partito filo-assiro. Quindi potete immaginare quale situazione di caos si fosse venuta a creare.
Nel 568 abbiamo la guerra finale coi babilonesi; nel 598 abbiamo invece una prima deportazione degli Ebrei avvenuta in parte verso Egitto e in parte verso Babilonia.
Non c'è nessuna prova che l'autore delle Lamentazioni sia Geremia, ma noi attribuiamo tutti i cinque capitoli a lui.
Torniamo alla storia. Quando l'impero babilonese crolla, gli subentra l'impero persiano, che consente agli Ebrei deportati di tornare in patria e di ricostruire il santuario; ciò avviene all'incirca nel 530 a.E.v. e questo santuario sarà poi distrutto nuovamente nel 70 dell'Era volgare per opera dei Romani, proprio il  di Av. Così quando celebriamo il 9 di Av, ricordiamo la distruzione del primo e del secondo tempio, insieme ad altre disgrazie che ci sono capitate. Non stiamo piangendo solo per la caduta di Gerusalemme, ma per tutte le cadute che ci sono capitate nel corso dei millenni.
Apro un piccolissimo inciso. C'è una teoria che il famoso Cristoforo Colombo fosse un marrano. I suoi diari sono spesso scritti da destra a sinistra e questo è un segnale interessante. Si racconta che la partenza delle caravelle sia stata rimandata, perché dai diari si evince che la partenza era stata fissata il 9 di Av e Colombo ha voluto spostare la data.
Noi diciamo che il 9 di Av è avvenuta la perdita del primo e del secondo stato ebraico, quindi è un giorno di grande lutto, ma i nostri maestri dicono che il 9 di Av per noi è il fondo e proprio avendo toccato questo fondo, noi possiamo risollevarci. Infatti la tradizione dice che il Messia arriverà il 9 di Av.
Qui c'è un'implicazione di carattere personale che a qualcuno forse ho già rivelato; per un piccolissimo sbaglio da parte di mia mamma, di venerata memoria, io ho rischiato grosso, perché potevo essere il Messia, visto che sono nato l'8 di Av! Pensate, potevo essere il Messia, solo se fossi nato 24 ore dopo!   
Ma la cosa che mi preme sottolineare è proprio la presenza di un messaggio di speranza anche in mezzo a tanto pianto e lutto. Quando noi, di Pesach, mangiamo l'uovo, che è rotondo, questo ci ricorda la persecuzione degli Egiziani, ma anche la liberazione; come l'uovo è tondo, così anche la storia, che cambia da un momento all'altro. Quando tutto sembra andar male, non preoccupiamoci troppo, perché tutto può girare, può cambiare; la vita è una ruota che gira. Dal pianto nasce la gioia.
Quasi tutti i capitoli di Echà sono acrostici, cioè i versetti cominciano con le lettere dell'alfabeto ebraico in successione.
C'è una cosa strana. Nell'alfabeto ebraico la lettera peh segue la ayin, mentre nel libro la successione di queste due lettere è invertita.
Leggo, per esempio, dal terzo capitolo, e si vede che le frasi sono costituite da due parti; in altri capitoli, invece, le frasi sono scandite diversamente. Si trovano vari artifizi letterari.
Il libro finisce dicendo che i nostri occhi si sono oscurati, il monte Zion è percorso dalle volpi, ecc. e poi dice: "Tu Signore siederai per sempre".
In mezzo a tutte le disgrazie possibili, Dio rimane per sempre. Si chiede a Dio di fare in modo che noi facciamo penitenza, ma per fare penitenza abbiamo bisogno del suo aiuto.
L'autore, che vuole difendere il popolo, fa emergere il peccato e gli errori dei capi, dei dirigenti, dei sacerdoti, mentre il popolo subisce, in qualche modo.
Ma al di là di tutte le considerazione che potrei ancora fare, ci tengo a ripetervi che la cosa fondamentale è che voi leggiate il testo per conto vostro.


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