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La mishnà
(Rav Luciano Meir Caro)


La Mishnàh è la raccolta scritta di tutto quel materiale che fino a un certo  punto era stato tramandato oralmente. La normativa ebraica era divisa in  norma scritta e legge orale. La norma scritta - e ci riferiamo a quanto scritto nel Vecchio Testamento ed  in particolare nei cinque libri del Pentateuco - è  formata da disposizioni di carattere molto generale. Queste norme scritte erano  accompagnate per tradizione fin da tempi antichissimi, da una serie di  commenti, di disposizioni, che dovevano rendere praticabili e attuabili queste normative nella vita quotidiana. Questa tradizione orale, che andava appunto  sotto il nome di "legge orale", era stata tramandata oralmente, come dice il  termine, di padre in figlio, da maestro ad allievo per molti anni e vigeva una  forma di divieto di metterla per iscritto, proprio perché non andasse fossilizzandosi, ma fosse trasmessa ad ogni generazione con il linguaggio  proprio di quella generazione. Quando, viceversa, motivi di carattere storico e politico hanno portato alla dispersione del popolo ebraico si aveva il timore che ogni singola comunità  ebraica si creasse una propria tradizione diversa dalle altre comunità. Allora si   decise molto a malincuore di mettere per iscritto quella che era la tradizione orale perlomeno fino a quel momento.
Questo lavoro di redazione, questa rivoluzione di mettere per iscritto quello  che prima era orale è durato per molti decenni e, secondo alcuni, per molti  secoli. Pensate che la prima idea di mettere per iscritto la tradizione orale  secondo alcuni era stata formulata due secoli prima dell'era volgare, mentre la redazione del testo della Mishnàh risale a circa due secoli dopo, quindi erano più di trecento anni che se ne parlava e risulta anche che erano stati fatti dei   tentativi, da parte di Maestri che avevano messo per iscritto certe cose, poi le  avevano distrutte per paura di quello che loro avevano scritto. Non volevano  che queste cose circolassero perché qualcuno li potesse accusare di aver voluto fossilizzare un materiale che viceversa doveva essere dinamico e sempre in evoluzione con i tempi.

Poi, viceversa, intorno al II secolo ormai la diaspora era una situazione appurata - poiché c'era anche questo elemento, che gli Ebrei non si sono mai rassegnati al fatto di essere dispersi e tutti pensavano che la dispersione fosse un fenomeno contingente sì, ma che finisse - e quando ci si è accorti che  viceversa questo fenomeno era irreversibile, perlomeno in quei tempi, si è addivenuti alla decisione di mettere per iscritto questo materiale. Ne è risultato un testo molto importante, chiamato Mishnàh, dalla radice "due", che significa  "Ripetizione" e che fa la fotografia di quella che era la tradizione orale per quanto attiene il materiale giuridico trasmesso fino a quel momento.
La Mishnà è un'opera scritta in un ebraico molto classico, ma con un  linguaggio molto tecnico. E' divisa in sei grandi parti, sei grandi ordini: la prima parte riguarda le norme soprattutto di carattere agricolo; la seconda parte riguarda le festività, quindi una parte importante del calendario; la terza parte   riguarda il diritto matrimoniale; 1a quarta parte, che è la più consistente, riguarda il diritto civile e il diritto penale; poi la quinta e la sesta parte, meno importanti per noi, trattano le normative riguardanti purità e impurità e soprattutto la legislazione sul culto sacrificale, che però ormai non era più in uso già quando è stata scritta la Mishnàh e questo è il motivo per cui lo studio di  questi testi  è  meno  interessante per noi.
Volevo attirare la vostra attenzione su un brano tratto dalla quarta parte, quella che riguarda il diritto penale e il diritto civile e che ha il titolo ebraico di "Seder Neziqin", cioè "Ordine dei danni", o anche chiamata, non sappiamo perché, "Ordine della salvezza". Questa parte è divisa a sua volta in tanti trattati: i primi tre, che portano il titolo strano di "Babà Kamà", "Babà metziàh" e "Babà  batrà". Sono parole aramaiche; "babà" vuol dire "porta" e  "babà kamà" vuol dire "la prima porta", mentre "babà metziàh" è "la porta di mezzo" e "babà  batràh" "l'ultima  porta".
Poi c'è un altro trattato, che va sotto il nome di "Shevuoth", cioè "i  Giuramenti". Nel diritto civile ebraico, fin dai tempi antichi, il giuramento ha un posto molto importante; addirittura una massima talmudica dice che il denaro si può sempre restituire, quindi si può anche rinviarne la restituzione, mentre il giuramento no, perché una volta fatto, non è possibile tornare indietro.  
Finalmente c'è un altro trattato, che tratta delle testimonianze, presenta le regole  che riguardano i testimoni, ecc.
Poi abbiamo ancora il trattato "Avodàh Zarah", cioè "dell'idolatria", che ci spiega quali sono gli atti che, se commessi, comportano un qualche coinvolgimento con l'idolatria, anche involontario.
Per esempio si dice che all'avvicinarsi delle feste dei pagani è proibito commerciare con i pagani, perché gli eventuali guadagni potrebbero essere destinati a qualche offerta per le loro divinità, quindi ne consegue che io avrei partecipato indirettamente, involontariamente, ad un atto di paganesimo.  
Un altro esempio è dato dal problema se sia possibile o no entrare in un locale dove sia esposta una statua pagana.  Il solo fatto che io entri in tale locale è  indirettamente una forma di  omaggio a quella statua.
Non dimenticate mai che il testo della Mishnàh non corrisponde alla  legge, alla norma, ma dà delle connotazioni, delle notizie, che poi vanno discusse e dalle quali dobbiamo ricavare la normativa. Quindi chi legge il testo della Mishnàh assolutamente non sa come va a finire; legge solo del materiale che va  elaborato e discusso e dal quale dobbiamo ricavare la normativa.
Dopo  il   trattato  dell'idolatria  c'è  un trattatello stranissimo, che  nessuno  sa bene  perché  si  trovi  qui, che  va  sotto  il nome  di  Abòth, cioè "le massime  dei  Padri". Sono massime non di diritto, ma di sapienza, di morale, di etica. Qualcuno attribuisce l'inserimento di questo materiale nel quarto trattato della Mishnàh per attenuare la rigidità e la freddezza della normativa di diritto penale e civile.
Finalmente troviamo un altro trattato, che ha il nome di Horajòt, "le disposizioni" e tratta di come ci si deve comportare quando una autorità delegata, ad esempio un tribunale, dà una risposta che poi risulta errata.
Volevo soffermar marmi molto brevemente sul quarto capitolo del trattato di Sanhedrìn, del Sinedrio. Per  sinedrio si intende il tribunale. Nel trattato di Sanhedrìn si parla molto ampiamente di come funzionano e di come devono essere costituiti i tribunali. Mi soffermo un istante su questo, perché forse ricorderete che, secondo la visione ebraica del mondo, gli Ebrei debbono mettere in pratica la normativa scritta nel testo biblico mediante 613 norme; per i non Ebrei, invece, vale la normativa cosiddetta "noachica", desunta dal testo biblico, ma costituita solo da sette principi di carattere generale. Quindi essere  non ebreo è più comodo, da questo punto di vista! Le prime sei di queste norme sono tutte negative, cioè  costituite da divieti, mentre la settima è espressa al positivo e impone l'obbligo di istituire dei tribunali; il che corrisponde al divieto di farsi giustizia da soli.
In questo trattato di Sanhedrìn ci viene spiegato come debbono essere   costituiti i tribunali, chi può farne parte, chi nomina i giudici, come funzionano le sentenze, come vengono erogate le pene e così via.  
Principio di carattere generale è che ci sono tre tipi di tribunali previsti dalla legislazione ebraica. Un primo tribunale, quello direi di prima istanza, è composto di tre membri, designati da un organo esterno. Di solito viene demandata a questi tribunali la competenza sulle questioni di carattere pecuniario. Questi tribunali siedono in qualunque tipo di città e conglomerato urbano e devono sempre essere in funzione il lunedì e il giovedì. Forse erano questi i giorni di mercato e perciò si voleva che i contadini, arrivando in città, avessero la possibilità di avvalersi del tribunale in caso di bisogno.
Poi c'è un tribunale maggiore, costituito da 23 membri, chiamato anche Sanhedrìn, ovvero "il piccolo sinedrio"; questo tipo di tribunale deve essere  costituito in città con almeno 120  abitanti. Certo, per noi, questa non è una città, ma allora le cose erano diverse. Comunque quando dico città, intendo qualcosa di più robusto numericamente, come persone.  
Forse c'era anche un altro tribunale per ogni tribù di Israele, quasi una specie di tribunale "regionale". Infine c'era il tribunale, sinedrio maggiore, costituito da 71 membri e si chiamava il "grande tribunale", che doveva sedere a Gerusalemme in un palazzo speciale e doveva esercitare le sue funzioni tutti i giorni fino alle 3 del pomeriggio.
Non c'è dubbio che il testo della Mishna sia a carattere giuridico, ma in moltissimi ambienti ebraici si è sempre riconosciuta a questo testo una certa sacralità, quasi pari a quella riconosciuta al testo biblico. Partendo da questo presupposto possiamo dire che il testo biblico ci dà i principi di carattere generale, che vengono da Dio. Rimane vero però il fatto che anche gli elementi tramandati oralmente sono considerati di carattere divino. Secondo la tradizione, il primo a trasmettere questo insegnamento orale è stato Mosè, il quale, sceso dal monte Sinai, portò con sé le tavole della Legge, il testo biblico,  ma portò con sé anche il modo di interpretare il testo biblico. Egli scrisse   e  ne   scrisse gli elementi principali e provvide lui stesso a tramandarne la spiegazione. Per questo si attribuisce un'origine divina anche a queste cose. Questa è la risposta alla domanda: "Cosa è stato a fare sul Sinai per 40 giorni Mose?". E' stato lassù 40 giorni e 40 notti per imparare dalla bocca di Dio quale era l'interpretazione da dare al testo biblico. Quindi lo studio della Mishnà è in qualche modo assimilabile allo studio del testo biblico.
Dunque, il punto di partenza è l'esistenza di un testo scritto e di un testo orale, ma per motivi contingenti, anche il testo orale è stato trasformato in scritto, mantenendo la stessa importanza di quello scritto.
A questo punto io entrerei subito nel vivo e provvederei a leggere con voi il capitolo quarto. La traduzione italiana, in lingua abbastanza arcaica, si trova in un pregevole testo curato dal Castiglioni, uno studioso italiano; purtroppo oggi non si trova più in commercio, per questioni legali suscitate dai familiari dell'autore. Infatti solo alcune copie sono state diffuso, mentre le rimanenti migliaia giacciono in qualche tribunale in attesa che si arrivi a una soluzione della questione.
Ma torniamo al capitolo 4: "I processi di carattere pecuniario e quelli di carattere penale hanno le stesse connotazioni per quanto riguarda le indagini che vanno fatte nell'interrogare le parti coinvolte e soprattutto i testimoni. Nella procedura non c'è nessuna differenza tra questioni penali e legali perché nel libro del Levitico c'è un versetto che dice: "Un'unica legge vi sia per voi" e la parola "legge" in questo caso non viene tradotta con "legge" ma con "modo di interpretare la 1egge, procedura".
Dunque ci deve essere un'unica procedura. Se le cose stanno così, 1'autore della Mishnà si domanda: "Allora che differenza c'è tra i processi di carattere penale e quelli pecuniari?".
I processi pecuniari vengono dibattuti da tre giudici, mentre quelli penali da 23. E ancora un'altra differenza è che i processi pecuniari si cominciano indifferentemente parlando a favore dell'imputato oppure contro di lui, mentre in quelli penali si deve sempre cominciare a favore dell'imputato e mai contro.
Quindi vedete che tutta la procedura si basa sulla difesa strenua dell'imputato. La legge ebraica è molto severa e può arrivare fino all'erogazione della pena di morte, anche se poi eseguirla diventa un altro problema. Comunque si fa una grandissima attenzione a che la prima fase del dibattimento sia sempre a favore dell'imputato; quando si tratta di questioni di carattere penale  bisogna sempre  parlare a suo favo-re, per disporre positivamente i giudici.
Ancora, i processi pecuniari vengono risolti con una maggioranza di uno, che è sufficiente per assolvere qualcuno o per condannarlo. I processi di carattere penale vengono risolti con la maggioranza di uno, se si tratta di assolvere e con la maggioranza di due, se si tratta di condannare. Quindi se non c'è maggioranza di due, non si può condannare nessuno.
E ancora, i processi pecuniari possono essere ripetuti sia a vantaggio dell'imputato che  a svantaggio, mentre quelli a carattere penale si possono ripetere solo a vantaggio e mai a svantaggio.   
Ancora, nei processi pecuniari qualunque persona può venire a parlare a vantaggio e a svantaggio dell'imputato, mentre in quelli penali chiunque può parlare  a favore dell'imputato, ma non tutti possono parlare a sfavore. Se durante un processo arriva qualcuno che vuole dire qualcosa a vantaggio dell'imputa-to, bisogna stare ad ascoltarlo, altrimenti ci sono delle limitazioni.
E poi: nei processi di carattere pecuniario chi ha parlato contro l'imputato può anche parlare a favore dell'imputato e viceversa. Qualunque teste può testimoniare sia a favore che contro l'imputato. Nei processi di carattere penale chi ha testimoniato contro l'imputato può rimangiarsi la parola, dire che non è stato capito bene, o che ha cambiato idea, ma la testimonianza fatta poi a favore dell'imputato non è più ritraibile.   
Ancora: i processi "pecuniari" iniziano di giorno e si concludono di notte, quelli "penali", invece, iniziano e finiscono di giorno. Nei primi si può andare ad oltranza, in quelli penali no, perché non si vuole rischiare che poi uno possa dire: "Ma io ero stanco"; inoltre nei primi non si vuole lasciare la notte in mezzo, perché uno potrebbe ripensarci.
I processi pecuniari possono finire nello stesso giorno, sia a favore che contro l'imputato; quelli di carattere penale possono terminare lo stesso giorno, ma solo se sono a vantaggio dell'imputato. Prima di dare la condanna, invece, si lascia sempre una notte in mezzo per pensarci. Per questo non si possono fare processi di venerdì, né la vigilia di giorni di festa, perché il tempo di sospensione sarebbe troppo lungo.
Ora siamo al paragrafo numero 2, andiamo avanti.
"In processi di carattere pecuniario, sia quelli che riguardano questioni di purità che quelli che si occupano di questioni di impurità, si cominciano dal più grande, mentre nei processi di carattere penale si comincia dal lato".
Cosa vuole dire ciò? Quale è la differenza? "Dal più grande" vuol dire il più grande dei giudici o il più anziano o il più importante, il più prestigioso?  Quando si tratta di un processo di carattere pecuniario deve esprimere per primo il suo parere il più qualificato dei giudici. Invece quando ci sono processi penali iniziano a dare il proprio parere i giudici "di lato", cioè i più  giovani. Quale è il motivo? Perché non siano influenzati. Non si parte dal giudice più anziano, perché potrebbe influenzare il giudice meno importante.
E ancora: "Tutti sono adatti a giudicare le questioni di carattere pecuniario, ma non tutti possono giudicare, emettere sentenze in un processo penale".
Sarebbe molto difficile da spiegare brevemente, ma qui si legge: "Quelli che possono esercitare la facoltà di giudizio in processi penali sono soltanto i cohanìm, cioè le persone di origine sacerdotale, quegli ebrei che hanno il permesso di imparentarsi con i sacerdoti".
Si tratta di gente qualificata dal punto di vista della famiglia da cui proviene.   Andiamo avanti col paragrafo 3: "Il sinedrio era fatto come un'aia rotonda, di modo che tutti potessero vedere tutti gli altri". Quindi erano tutti in semicerchio e i giudici potevano tutti guardarsi in faccia mentre parlavano.
C'erano anche 2 scrivani, uno alla destra e uno alla sinistra, che avevano il compito di mettere per iscritto le parole di coloro che assolvono e di coloro che condannano. Rabbi Yehudà disse che gli scrivani dovevano essere tre: uno per scrivere le parole a favore dell'imputato, uno per scrivere le parole di chi è contro l'imputato e il terzo per scrivere le parole di tutti e due.  In questo modo si realizzava come un controllo incrociato su quanto era stato detto nel processo.
Davanti ai giudici c'erano tre file di "talmid hahacham", studiosi della legge, studenti. Non pensate a studenti nel senso nostro, ma a persone qualificate, a studiosi, però non dotati del titolo di giudice. Quindi ci sono tre file di persone che sono preparate, ma non sono i giudici e ognuno deve conoscere bene il proprio posto. Se c'è bisogno di ordinare, si ordinava uno della prima fila.
Cosa vuol dire ordinare? Vuol dire che se, nel corso del dibattimento, uno dei 23 giudici venisse a man-care, o perché se ne deve andare o perché è morto  o si ammala, non si può interrompere il processo e cominciare da capo, ma si sceglie da quelle 3 file di esperti e lo si nomina sul posto. Queste tre file sono disposte secondo il grado: si sceglie dalla prima o dalla seconda o dalla terza fila, a seconda delle necessità. Se si sceglie una persona dalla prima fila, una persona della seconda fila passa nella prima e una persona della terza fila passava nel posto rimasto vuoto nella seconda e poi si chiamava uno della comunità a prendere il posto lasciato vuoto in terza fila. Nel caso, quindi, che venga nominato un esperto dalle 3 file, c'è tutto un rivolgimento. La persona chiamata dalla comunità, però, non si sedeva nel posto del suo predecessore, ma nel posto "a lui conveniente", che vuol dire in base all'età e qualità e preparazione che  aveva.
E adesso entriamo in un altro argomento. Finora abbiamo parlato di giudici e avrete capito che si fa di tutto per cercare di essere a favore dell'imputato.
Ma come si fa a condannare qualcuno? Bisogna tenere conto si questa affermazione del testo: "Ove anche si condannasse qualcuno all'unanimità dei giudici, questo qualcuno viene automaticamente assolto".
Quindi se c'è unanimità nella condanna, 1'imputato viene considerato innocente, perché si suppone che se tra 23 persone non c'è nessuno che abbia un dubbio, tutto lascia pensare che ci sia stato qualcosa di combinato, di premeditato. E' impossibile che su 23 giudici non ce ne sia uno che abbia maturato un dubbio
Andiamo  avanti e parliamo dei testimoni in caso di processo penale.
Dovete sapere che l'elemento principale nelle questioni di diritto penale è la testimonianza. Mentre nel diritto pecuniario ciò che è importantissimo sono le dichiarazioni dei testimoni, dell'imputato ed eventuali prove portate, nel  diritto penale l'unica cosa importante sono i testimoni; tutto il resto è irrilevante. Qualsiasi altro tipo di prova o qualsiasi testimonianza dell'imputato non ha nessun effetto. Contano solo i testimoni. Per testimoni si intende almeno due persone, che hanno il dovere di dire ciò che hanno visto, di presentarsi in tribunale e denunciare il crimine che hanno visto commettere. E' chiaro che la loro posizione è pericolosa, perché se il tribunale accoglie la loro testimonianza, hanno poi il dovere di eseguire la sentenza. Non basta dire: "Io ho visto un tizio che ammazzava un altro", ma bisogna anche portare le prove. Un altra cosa importante è che facilmente i testimoni possono diventare loro stessi gli imputati, nel caso in cui si verifichi che la loro testimonianza era falsa e così devono subire la stessa pena riservata all'imputato. Quindi è pericoloso apparire come testimone in qualunque processo. Ma se mancano i testimoni è impossibile fare il processo; quindi è chiaro che proprio i testimoni sono la figura chiave, più importante, in qualsiasi processo. E devono sempre essere almeno due, lo ripeto.
C'è  un  altro  elemento importantissimo, che, per quanto ne so io, non si trova in nessun altra forma di diritto, al di fuori di quello ebraico ed è questo. Non è sufficiente che due persone vengano a dire di aver visto, per es., il signor A che commetteva una certa azione; perché la testimonianza sia valida, sia accettabile, bisogna che i testimoni dichiarino anche di aver avvertito quel tale signore. Ove non ci sia l'avvertimento, non si procede. Cioè, non si può guardare di  nascosto a una persona che commette qualche delitto, ma la si deve avvertire che per fare qualcosa di  brutto.
Da questo deriva che una persona accusata di una colpa, vista e avvisata da due testimoni, che ha perseverato nel suo proposito, davvero era consapevole di quello che stava per fare.
Attenzione: se un tribunale arriva alla certezza della colpevolezza di una persona, nonostante manchino tutti requisiti necessari, per ES., se i testimoni c'erano,ma non hanno avvisato prima la persona, allora non può emettere la condanna, ma può intervenire su quella persona per metterla in condizione di non nuocere più. E questo con un'ampia gamma di scelte, di possibilità da parte del giudice del tribunale.
Andiamo avanti.
I testimoni devono anche essere intimoriti dal tribunale, proprio minacciati. Ogni volta che un tale si presenta a fare una testimonianza in tribunale, lo si introduce nell'aula e gli si chiede: "Ti rendi conto di quello che stai per dire? Tu parli perché credi di avere visto, tu credi che le cose che racconti siano successe davvero. Oppure te l'hanno raccontato, oppure l'hai sentito da un altro teste che ha visto la cosa. Forse non sapevi che noi giudici ti avremmo interrogato con attenzione".
La responsabilità dei testimoni è molto grave, insomma, perché se accade che la sentenza emessa sia sbagliata, sono loro che devono risarcire. Nel caso di un processo pecuniario, l'imputato che viene condannato, perde solo dei soldi, ma per i processi penali è diverso, perché in quel caso i testimoni, che hanno contribuito all'esecuzione di una condanna sbagliata, sono responsabili non solo del sangue del condannato, ma anche di quello delle generazioni future. Perché se viene ucciso un uomo innocente, i testimoni non sono responsabili solo della sua morte, ma anche della non-nascita di tutti i suoi discendenti fino alla fine del mondo.
Capite, allora, come debba sentirsi un testimone di processo: da una parte è spinto dal dovere di testimoniare, ma dall'altra parte è frenato dal peso di una responsabilità schiacciante, per la quale si trova ad avere in mano la sorte non solo di una persona, che potrebbe venire uccisa, ma anche dei suoi non nati discendenti. E chi sa che, tra i suoi discendenti, non ci sarebbe stato, magari dopo 20 generazioni, qualcuno che avrebbe salvato il mondo?
Ricordate cosa è scritto riguardo a Caino, che uccise suo fratello? Dio pronuncio queste parole: "… i sangui di tuo fratello esclamano a me". Non dice: "il sangue", ma: "i sangui". E "sangui" al plurale vuol dire il suo sangue e quello dei suoi discendenti.
Alcuni maestri, invece, interpretano in modo diverso e dicono che "sangui" vuol dire che il sangue di Abele si era sparso sul legname e sulle pietre, cioè qua e là.
Ma torniamo all'ammonimento dei giudici ai singoli testimoni. Fra le altre cose, è interessante notare che essi dicono anche queste parole: "Per questo motivo l'uomo è stato creato unico". Più volte si è sentita la domanda: "Perché Dio, quando ha creato l'uomo, lo ha creato solo? Non poteva farne tanti, di Adamo?". L'uomo è stato creato unico, per insegnare che chiunque uccide una persona, ha ucciso un intero universo. E, viceversa, chiunque salva una persona, per la Sacra Scrittura, ha salvato un intero universo. Ecco quindi il grande valore di ogni singola vita umana.
Alcuni maestri dicono che Dio ha creato un unico uomo per mantenere la pace fra le creature, affinché nessuno possa dire: "Mio padre è più grande del tuo", visto che il padre di tutti noi era uno solo. Se Dio avesse creato due uomini, uno avrebbe potuto rivendicare la sua nascita da un certo "padre A", più importante, più nobile, più grande del "padre B".
Allo stesso modo, affermando che è stato creato un solo uomo, non si può incorrere nell'eresia di affermare che più entità hanno creato l'uomo. Come se potesse esistere, nel cielo, un'entità che ha creato l'uomo A e un'altra entità che ha creato l'uomo B. Invece si afferma la creazione di un unico uomo da parte di un solo, unico Dio.
Ancora, il testo biblico racconta che, in principio è stato creato un solo uomo per insegnarci a lodare la grandezza del Santo, Benedetto Egli sia! Dio ha impresso il suo marchio in ogni uomo e tra gli uomini non ce n'è uno uguale all'altro. Il marchio è uno solo, però non esistono due uomini uguali, per cui ogni uomo può dire: "Il mondo è stato creato per me; io sono unico, come me non c'è nessuno".
Ripeto: tutte queste cose erano dette prima del dibattimento in un  processo, per invitare a fare molta molta attenzione prima di testimoniare contro qualcuno.
E se anche un testimone, davanti alla presa di coscienza di una tale responsabilità, volesse tirarsi indietro, non può farlo a cuor leggero, perché il testo biblico, nel Levitico, dice che se qualcuno ha assistito a un'azione   riprovevole e  non  lo  dice, è degno di punizione. Un testimone che non dice ciò che ha visto, diventa corresponsabile del delitto commesso.
Ancora un'ultima considerazione. Se un testimone, poi, afferma di volersi tirare indietro, gli viene posto davanti un altro versetto biblico, tratto dal libro dei Proverbi, che dice così: "Nella perdizione dei malvagi è la vera gioia". Quindi la vera gioia è quando i malvagi vanno in rovina. Non sappiamo se qui si faccia riferimento alla morte dei malvagi o alla malvagità.
Dopo questa lezione fatta ai testimoni, i giudici passano all'interrogatorio vero e proprio dei testimoni, che prevede almeno quattro tipi di interrogazione. Viene chiesto, ad es. in quale settimana è avvenuto il fatto, in quale anno, in quale mese, a quale data del mese e quale giorno fosse, a che ora e in che posto preciso. Avrete notato che c'è una certa discrepanza, perché si parte dalla settimana e poi si passa all'anno. Probabilmente quella settimana non è come la consideriamo noi, ma si riferisce alla "settimana di anni". Infatti anticamente si contava un gruppo di 6 anni e poi c'era il settimo anno in cui non si lavorava la terra. Quindi chiedere in quale anno era avvenuto il fatto, era come  dire in quale "settenario".
Questo discorso fa riferimento al computo ebraico degli anni, che andava da 6 + 1 e poi 7 volte 7 anni, che costituiva un'epoca a sé stante, cioè 49 anni, che poi immettevano nel 50° anno, che era il famoso anno del giubileo, in cui si aveva la remissione dei debiti e la restituzione dei campi a chi li aveva venduti.
Qualcun altro afferma che l'interrogazione dei testimoni doveva seguire un altro ordine: in quale giorno, in quale ora, in quale posto.
Poi si passa a chiedere al testimone se conosceva l'imputato, se lo aveva avvertito che lui sapeva quello che stava per fare.
Nel caso particolare di un processo per idolatria, il testimone deve saper dire sia a chi sia come l'imputato abbia prestato culto. Non basta che dica di aver visto un tale che si inginocchiava davanti a una statua, ma deve anche saper dire quale tipo di statua era.
La Misnah dice che più domande un tribunale pone ai testimoni e meglio è.
Si racconta che un maestro, chiamato Ben Zaccai, durante un processo, interrogò i testimoni sulla lunghezza e sul colore dei piccioli dei fichi.
Ma anche davanti a domande come queste, se un testimone dice: "Non lo so", allora la testimonianza di entrambi i testimoni è resa invalida.
Per quanto è importante la testimonianza dei testimoni, tanto è irrilevante quella dell'imputato; per il tribunale non ha nessuna importanza, né che l'imputato parli a suo favore che a suo sfavore. E' importantissimo questo fatto, perché non si vuole che ci siano abusi da parte dell'autorità inquirente. Nessuno  può essere chiamato a testimoniare contro se stesso e quello che lui dice non ha nessuna impor-tanza. Salvo poi il fatto contrario, perché il testo più avanti afferma che, anche a sentenza già emessa, ove l'imputato dica: "Ho ancora qualcosa da dire", si può interrompere l'esecuzione e starlo a sentire.
Poi c'è un'apposita commissione che deve valutare se la cosa ha rilevanza o no, però intanto lo si deve stare a sentire. Quindi un imputato un po' intelligente può rimandare all'infinito la sua esecuzione, sempre inventando qualcosa da aggiungere.


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