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Mosè riceve da Dio la missione di liberare il suo popolo - Esodo 4, 2-7
(Rav Luciano Meìr Caro)


Desidero leggere insieme a voi l'inizio del cap. 4 dell'Esodo, che ci presenta l'incontro di Mosè con Dio, che gli affida l'incarico di andare a liberare gli Israeliti dall'Egitto.
Ecco il testo:


"2Il Signore gli disse: "Che cosa hai in mano?". Rispose: "Un bastone". 3Riprese: "Gettalo a terra!". Lo gettò a terra e il bastone diventò un serpente, davanti al quale Mosè si mise a fuggire. 4Il Signore disse a Mosè: "Stendi la mano e prendilo per la coda!". Stese la mano, lo prese e diventò di nuovo un bastone nella sua mano. 5"Questo perché credano che ti è apparso il Signore, Dio dei loro padri, Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe". 6Il Signore gli disse ancora: "Introduci la mano nel seno!". Egli si mise in seno la mano e poi la ritirò: ecco, la sua mano era diventata lebbrosa, bianca come la neve. 7Egli disse: "Rimetti la mano nel seno!". Rimise in seno la mano e la tirò fuori: ecco, era tornata come il resto della sua carne."
Vorrei subito farvi notare un particolare. Vedete, al v.2, dove il testo dice che Mosè "rispose" a Dio? In realtà è più esatto tradurre con "prese a dire", perché Mosè non sta dando una risposta, non c'è una domanda prima.
Ciò è dato da uno stile particolare della lingua ebraica, che adopera due espressioni diverse per esprimere una sola azione. Altri esempi simili sono le espressioni "alzò gli occhi e vide", "aprì la bocca e parlò", "stese il braccio e prese". E anche in questo caso il testo, alla lettera, dice così: "rispose e disse", cioè "prese a parlare".
Anche poco prima il testo ci presenta un'analoga espressione di Mosè, il quale, alle parole di Dio, che preannuncia l'uscita miracolosa di Israele dall'Egitto, addirittura portando con sé doni dategli dagli egiziani (Es 3, 19-22), "prese a dire" (Es 4, 1). E cosa prese a dire? "Forse non avranno fede in me e quindi non ascolteranno la mia voce, perché diranno: Non ti è apparso il Signore!". (ivi)

Mosè fa delle obiezioni, mostra delle riserve nei confronti del popolo ebraico, quasi contesta davanti a Dio il fatto che gli Ebrei, alla sua dichiarazione di essere stato inviato da Dio, non gli crederanno. Sembra quasi voler sottolineare che gli Ebrei, per principio, non credono mai a niente, sono sempre pieni di problemi.A questo punto, Dio risponde invitando Mosè a buttare a terra la verga che teneva in mano, la quale si trasforma in un serpente, alla cui vista Mosè fugge. Poi di nuovo Dio lo invita ad afferrare quel serpente per la coda e, avendolo fatto, esso torna di nuovo ad essere un bastone. Questo è il primo segno che Dio dà a Mosè per dimostrare che gli Ebrei crederanno, che saranno certi che a lui è apparso il Dio dei loro padri, Abramo, Isacco e Giacobbe.Poi gli dà un secondo segno, invitandolo a mettere la mano nel suo seno e, avendola tirata fuori, la vide tutta lebbrosa, bianca come neve. Di nuovo invitato a mettersela in seno, la mano tornò sana. E Dio dice:
"Dunque se non avranno fede in te e saranno sordi alla voce del primo segno, dovranno credere alla voce del secondo! 9Se resteranno increduli alla voce di questi due segni e non daranno ascolto alla tua voce, prenderai acqua del Nilo e la verserai sulla terra asciutta: l'acqua che avrai preso dal Nilo diventerà sangue sulla terra asciutta" (vv. 8-9).
Il testo, dunque, è molto chiaro nel lasciare intendere che Mosè aveva molti dubbi nel compiere la missione affidatagli da Dio; probabilmente addirittura avrebbe voluto rifiutare. Infatti subito dopo lo sentiamo dire così: "Perdona, Signore, manda chi vuoi mandare!" (v. 13). Ma Dio gli ripete il comando di andare dal popolo.
Al di là di questo, a me premeva affrontare con voi la prima parte di questo brano, le prime battute del dialogo fa Dio e Mosè. Perché, quando leggo questo passo, sento un qualcosa che non funziona bene. Sembra quasi che Dio voglia trasformarsi in un prestigiatore, senza che ce ne sia realmente bisogno; infatti quando Mosè si presenta agli Israeliti e dice "Dio mi manda a liberarvi", essi subito gli credono, senza fare resistenze (Es 4, 31).
In più questi segni che Dio presenta a Mosè come credenziali della sua missione liberatrice, vengono ripetuti tali e quali anche dai maghi egiziani, con molta facilità, come se fossero scherzi da niente (Es 7, 8-13). E allora, che segni, che prove erano, quelle? Non sembrano affatto convincenti, come invece vuole far credere il testo. Quindi c'è qualcosa che io ritengo almeno almeno stridente.  
Ma torniamo al momento dell'incontro e del dialogo tra Dio e Mosè. Il testo dice che la mano di Mosè, introdotta nel seno, diventa lebbrosa. Io non so se si tratti proprio di lebbra; sì, la carnagione diventa bianchissima, assumendo un biancore eccezionale, ma che sia lebbra o no, non è così determinante. Forse si tratta di una malattia molto diffusa in Egitto, anche se non è proprio lebbra. Così come il serpente richiama una divinità del pantheon egiziano, anche questa malattia forse vuole contestualizzarci in Egitto.
E rispetto a questo brano, quali sono i problemi che si pongono immediatamente i nostri Maestri? Qualcuno afferma che Mosè ha semplicemente compiuto un atto di dubbio; ha paura che gli Israeliti non gli credano e perciò chiede delle credenziali, grazie alle quali il popolo possa schierarsi dalla sua parte. Perché, altrimenti, come potrebbe presentarsi al Faraone e chiedere la liberazione di un popolo che non è con lui, che gli dà fiducia?
Altri maestri concentrano la loro attenzione su queste parole di Mosè: "Ecco, non mi crederanno, non daranno ascolto alla mia voce, ma diranno: Non ti è apparso il Signore!" (Es 4, 1).
Questa stessa insicurezza di Mosè i Maestri la riscontrano in un altro dialogo che lui ha avuto con Dio e che troviamo nell'episodio del roveto ardente (Es 3, 1-12). Mosè si avvicina per curiosità, perché ha costatato che c'è qualcosa di strano in quel pruno che arde e non si consuma; qui sente la voce di Dio che lo invita a togliersi i sandali, perché si trova su un luogo santo e gli rivela la sua intenzione di inviarlo in Egitto per liberare il suo popolo dall'oppressione del Faraone. La reazione di Mosè è molto forte e decisa: "Chi sono io per andare dal Faraone e fare uscire gli Israeliti dal paese di Egitto?" (3, 11). Ma Dio lo rassicura dicendo: "Io sarò con te" e gli dà un segno, anche questa volta: "Quando tu avrai fatto uscire il popolo dall'Egitto, servirete Dio su questo monte" (3, 12).
E' una "tecnica" abbastanza abituale dell'Eterno quella di dare una risposta che non è una risposta (Dio mi scuserà di questo linguaggio irriverente!). Mosè sta chiedendo una prova tangibile che la sua missione avrà successo e Dio gli promette una cosa che si realizzerà solo dopo che la missione sarà portata a termine. A Mosè non serviva avere la prova a fatto compiuto; la voleva prima, voleva essere sicuro che sarebbe riuscito.
E allora insiste dicendo: "Ecco, io vado dagli Israeliti e dico loro: Il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi. Mi diranno: Qual è il suo nome?. E io che cosa risponderò loro?" (Es 3, 13).
Mosè sapeva che il Nome di Dio era una realtà eccezionale, superiore a qualsiasi altra cosa e sperava, forse, che Dio non glielo avrebbe mai rivelato e perciò avrebbe piuttosto revocato la chiamata, la missione. Invece no. Dio risponde, seppure in un modo tutto suo, un po' ironico, forse e dice: "Io sono quello che sono" (3, 14). E aggiunse: "Così dirai agli Israeliti: Io-Sono mi ha mandato a voi" (ivi).
Vedete? E' una risposta che non risponde nulla. Mosè ne sa quanto prima.
Leggiamo ancora alcune righe del testo:
"16Va'! Riunisci gli anziani d'Israele e di' loro: "Il Signore, Dio dei vostri padri, Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, mi è apparso per dirmi: Sono venuto a visitarvi e vedere ciò che viene fatto a voi in Egitto. 17E ho detto: Vi farò salire dalla umiliazione dell'Egitto verso la terra del Cananeo, dell'Ittita, dell'Amorreo, del Perizzita, dell'Eveo e del Gebuseo, verso una terra dove scorrono latte e miele" (Es 3, 16-17).
E Dio conclude dicendo: "Ed essi ascolteranno la tua voce" (3, 18). Proprio su questa parola Mosè mostra la sua titubanza, la sua paura e incredulità; infatti, poco più avanti, all'inizio del cap. 4, dice a Dio: "Ecco, non mi crederanno, non daranno ascolto alla mia voce".
Dunque Mosè mette in dubbio la Parola di Dio, si mette in contrasto con una promessa, una profezia, una dichiarazione fatta con parole precise da parte di Dio.
I nostri Maestri si soffermano molto a considerare questa situazione e formulano varie ipotesi: è stata una ribellione di Mosè? O non era sicuro di aver sentito bene? O aveva paura? Ma la paura lo autorizza forse a mettere in dubbio le parole di Dio? Invece di parlare apertamente a Dio e manifestare la sua paura, lui mette in dubbio la parola dell'Eterno, dubita della sua promessa.
Le interpretazioni, a questo riguardo, si moltiplicano. Ma prima di proseguire, vorrei sottolineare un piccolo particolare linguistico che emerge dal confronto tra i due versetti che abbiamo visto, nei quali appare il verbo ascoltare. C'è una piccolissima differenza che si nota nel testo ebraico: Dio dice a Mosè: "Ed essi ascolteranno alla tua voce" (3, 18) e Mosè dice: "Essi non ascolteranno nella mia voce" (4, 1). Vedete che sottigliezza? Alla tua voce e nella mia voce. Io non so se è la stessa cosa o no.
Un Maestro dice che il dubbio di Mosè riguarda solo il fatto che, pur essendo accettato dagli anziani, come dice Dio, però non lo sarà da parte del popolo. Quindi lui non contesta la parola di Dio, non è incredulo nei suoi confronti, ma solo pone un luce un ulteriore difficoltà di cui ha paura.
Personalmente non so se questa sia un'interpretazione giusta.
Qualcun altro, soffermandosi a riflettere sulla sfumatura di differenza tra "ascoltare alla voce" e "ascoltare nella voce", dice che Mosè non dubita del fatto che lo ascolteranno; sì, lo staranno a sentire, ascolteranno alla sua voce, ma non saranno proprio convinti, non riusciranno ad ascoltare nella sua voce.
Vedete?, questi sono tentativi di salvare in qualche modo la faccia di Mosè. Mentre, dall'altra parte, abbiamo tutta una serie di interpretazioni che vogliono mettere in evidenza la debolezza di fede di Mosè. Proviamo a vederne alcune.
Qualcuno si erge a difensore di Dio nei confronti di Mosè, che sarebbe stato proprio sfacciato, incredulo e avrebbe compiuto un atto inaudito nei confronti di Dio, mettendosi in contrasto con quanto Lui gli aveva promesso. E in questa linea tutto il racconto che abbiamo letto, la prova del serpente mutato in bastone, ecc. diventa la risposta di Dio all'atteggiamento irriverente di Mosè.
Torniamo per un attimo al testo. Vi ricordate la domanda di Dio a Mosè? "Cos'hai in mano? Un bastone…" (Es 4, 2). Vi sembra una domanda logica? Forse che Dio non vedeva cosa Mosè teneva in mano? Non vi sembra un po' assurdo che il Dio che deve darci dei messaggi di importanza cosmica, di carattere morale, si perda a chiedere cosa tiene in mano Mosè? Secondo alcuni Maestri questa non doveva essere una prova, un segno per Mosè davanti al popolo, ma una punizione per lui.
Nell'ebraico c'è anche un gioco di assonanze tra la domanda di Dio: "Cos'è questo che hai in mano?" - ma seh? - e la risposta di Mosè: "Un bastone" - matté - . In più c'è un piccolissimo particolare di ortografia: in ebraico sarebbe corretto scrivere "che cosa?" con due paroline staccate, indipendenti, mentre nel testo di Esodo le troviamo unite a formare un'unica parola, il che è scorretto.
Qualcuno, invece di leggere "ma seh?" legge "mi seh", cioè "da questo che hai in mano", a dire che il bastone che Mosè tiene in mano sarà lo strumento di punizione per lui; insomma, Dio gli prometterebbe una bella legnata sulla testa! La risposta di Mosè richiederebbe proprio questo intervento da parte di Dio.
E il simbolo del serpente? Abbiamo un bastone che si trasforma in serpente e, davanti ad esso, Mosè fugge impaurito. Che significato troviamo in questa immagine? Rashi, un nostro grandissimo commentatore della Scrittura, dice che il serpente è simbolo di tradimento e perciò viene ad indicare il comportamento di Mosè stesso, il fatto che lui si è comportato come un serpente nei confronti di Israele. L'immagine è forte, però, nonostante tutta la venerazione che abbiamo per Mosè, quale nostro Liberatore, nostro Legislatore e Salvatore, noi non tacciamo i suoi errori, i suoi sbagli.
Forse potrebbe essere anche questa mancanza di fede la causa del mancato ingresso di Mosè nella Terra promessa. Dico forse, perché non ne siamo sicuri. E poi ci sono una quantità di errori attribuiti a Mosè.
Ma torniamo un attimo indietro nella storia di Mosè e osserviamolo così come ce lo descrive il racconto di Esodo 2, 11-15, dove Mosè uccide un Egiziano e poi il giorno dopo si mette a far da paciere fra due Ebrei, ma lì si accorge che il fatto dell'assassinio è risaputo. E se prima è detto che Mosè aveva paura, in questo momento, quando si accorge che la cosa è risaputa, scappa via dal Faraone e il testo dice che si fermò presso un pozzo.
Ma perché Mosè ha paura? Il testo dice così: "Il faraone sentì parlare di questo fatto e fece cercare Mosè per metterlo a morte. Allora Mosè fuggì lontano dal faraone e si fermò nel territorio di Midian e sedette presso un pozzo" (Es 2, 15).
Sembra quasi che prima Mosè si sentisse al sicuro, in quanto figlio della figlia del Faraone, un principino, che poteva permettersi anche di contravvenire alle leggi di stato, perché lui era superiore.
Ma voglio riferirvi di un'interpretazione midrashica, che però non dovete prendere per buona, ma dovete pensarci su, riflettere.
Il midrash parte dal nostro versetto: "Mosè aveva paura" e commenta così: aveva paura, perché si era reso conto che fra gli Ebrei c'erano delle spie. Non era preoccupato per l'omicidio commesso, ma per il fatto che tra i suoi fratelli c'erano delle spie.
E le parole "la cosa si sa" sono riferite proprio a questa realtà, cioè si sa il perché il popolo ebraico subisce persecuzioni più di qualunque altro popolo della terra, e cioè perché ci sono delle spie. Insomma, sembra che Mosè dica che gli Ebrei si meritano le persecuzioni, perché si comportano male, tengono delle spie in mezzo a loro. Quindi la paura che Mosè ha non riguarda la sua persona, ma il popolo ebraico, che sembra indegno della redenzione, della liberazione.
Ma questo pensiero è una specie di bestemmia nei confronti del popolo ebraico, è la ricerca di una giustificazione di fronte alle persecuzioni inflitte agli Ebrei: se le persecuzioni ci sono, è perché i perseguitati se le meritano. E' un discorso quanto mai pericoloso, che sentiamo fare spesso anche nel nostro mondo di oggi e col quale si vuole colpevolizzare la vittima. Io inorridisco davanti ad affermazioni come queste, davanti a un ragionamento che dice: Siccome Dio è giusto, se Egli ha permesso una persecuzione, vuol dire che era meritata!
Quindi secondo il midrash Mosè si sarebbe macchiato di questa colpa nei confronti del suo popolo.
Un po' su questa stessa linea si muove l'interpretazione del segno della lebbra, di cui abbiamo letto in Esodo 4, 6-8. Secondo la tradizione biblica tutte le malattie sono una punizione divina, dispensatore di malattie e guarigione e la lebbra è la malattia che colpisce chi parla male degli altri (Vedi Numeri 12, 1-10). Dio manda a Mosè la lebbra, questa malattia che si vede al i fuori, che non si può nascondere, quasi a voler portare alla luce la maldicenza che lui aveva dentro, quella parte cattiva che teneva dentro e che lo aveva portato a pensare male del popolo ebraico.
Vedete quale diversità tra questa interpretazione e quella che abbiamo visto precedentemente, che poneva invece l'accento su questi segno che Dio fa, quasi fossero dei giochi di prestigio?
Mi sembra molto interessante l'insegnamento sotteso a questa interpretazione e cioè l'invito rivolto a Mosè a guardarsi dentro bene, a mettersi di fronte alla sua vera identità, in profondità, prima di partire per la sua missione liberatrice nei confronti del popolo.
Ma vorrei farvi andare ancora più in profondità nella lettura del testo, vorrei che aguzzaste ancor più la vista, aiutati dai nostri Maestri.
Siamo sempre all'episodio della mano, che Mosè mette nel seno e tira fuori lebbrosa e poi, una volta rimessa dentro, torna fuori guarita. I Maestri notano una piccolissima sfumatura, una differenza minima di espressione. Proviamo a seguirli.
"Il Signore gli disse ancora: "Introduci la mano nel seno!". Egli si mise in seno la mano e poi la tirò fuori: ecco, la sua mano era diventata lebbrosa, bianca come la neve. Egli disse: "Rimetti la mano nel seno!". Rimise in seno la mano e la tirò fuor dal suo petto: ecco, era tornata come il resto della sua carne"(Es 4, 6-7).
La prima volta c'è scritto: "La tirò fuori ed ecco la sua mano era lebbrosa come la neve", mentre la seconda volta c'è qualcosa in più: "La tirò fuori dal suo petto ed ecco che era tornata come la sua carne".
I Maestri vogliono farci capire che la malattia si è manifestata sotto gli occhi di Mosè, cioè quando tirò fuori la mano dal seno, mentre la guarigione era avvenuta già prima, quando ancora la mano era dentro il seno. E questo per dire che Dio vuole piuttosto guarire l'uomo che punirlo con la malattia, che Dio fa prima a guarire che a colpire con la malattia.
Sì, la guarigione di Mosè è avvenuta quando lui ancora non se la aspettava; è come se Dio avesse avuto fretta di mandargli la guarigione, avesse questo profondo desiderio di guarirlo.
Vedete quale insegnamento i nostri Maestri riescono a trarre da una differenza così minima, che noi non avremmo mai notato?
E' importante, allora, che ci abituiamo a leggere la Bibbia con infinita attenzione, perché è un testo di eccezionale valore: in essa è Dio stesso che sta parlando con noi, quindi dobbiamo gustare ogni singola sillaba e persino ogni vocale, come dicono i Maestri. E perfino ogni virgoletta dovuta allo stile personale del calligrafo che ha ricopiato il testo divino. I Maestri dicono che un vero copista, che fa il suo lavoro con la massima serietà, deve trascrivere il testo così come lo trova, anche con eventuali ghirigori, con eventuali sbagli.
E' normale che nei rotoli della Torah che noi usiamo in sinagoga ci siano dei puntini o sopra o sotto le lettere, o anche delle lettere scritte storte; anzi, se non si trovano di queste anomalie in un rotolo, esso viene dichiarato inagibile, perché è considerato non originale.
Il lavoro del copista sta nell'adeguarsi completamente al testo che ha davanti, nell'accoglierlo così com'è, anche con gli sbagli, perché è così che Dio consegna a noi la sua parola.
Anche si trattasse di un segnino, o sopra o sotto una lettera, dato da una goccia di inchiostro che il copista ha lasciato cadere, quel puntino va riprodotto. Il copista della generazione successiva, che ha il rotolo davanti e deve riprodurlo, non si chiede cosa possa significare un puntino, o una macchia, ma semplicemente la riproduce, perché il suo compito sta nel trasmettere io testo sacro così come lo ha ricevuto.

Vi prego di non considerare questo piccolo esercizio che abbiamo fatto con il testo di Esodo come un giochetto; i Maestri, attraverso le loro osservazioni e interpretazioni così minuziose, vogliono proprio dirci di fare attenzione, un'attenzione immensa, al testo che abbiamo davanti, senza stancarci mai di leggerlo e rileggerlo. E' importante che impariamo a farci delle domande sul testo biblico; non è importante il commento, o la risposta, ma la domanda.
Io dico sempre che il testo biblico è il testo delle domande che vengono poste all'uomo e che ognuno di noi deve imparare a porsi, senza stancarsi, senza lasciarsi prendere dalla pigrizia o dalla superficialità.

(Conferenza tenuta a Forlì, l'11 aprile 1991)






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