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Interpretazioni rabbiniche del Pentateuco (Il cap. 2 dell'Esodo)
(Rav Luciano Meir Caro)
Questo mio intervento vuole essere di tipo sperimentale, diciamo così, nel senso che vorrei introdurvi a un approccio nuovo del testo sacro, a una forma di lettura dell'Antico Testamento forse un po' inedita.
Di solito si ha l'abitudine di leggere il cosiddetto "Vecchio Testamento" con una certa, senza prestare attenzione, forse perché alcune delle storie che esso presenta sono entrate a far parte della nostra cultura e civiltà e perciò sembrano già acquisite, già conosciute; per parte mia ritengo che, invece, sarebbe proprio il caso di approfondire la lettura e il contatto con i testi sacri.
Questo perché la Bibbia non è semplicemente un testo letterario, ma è un messaggio divino e quindi, come tale, merita di essere letto con grandissima attenzione, allo scopo di ricavarne degli insegnamenti di vita quotidiana.
Vi propongo la lettura del secondo capitolo dell'Esodo, che narra la nascita di Mosè. Ma prima mi sembra importante contestualizzare questo brano.
Come tutti sapete, il libro dell'Esodo, che è il secondo del Pentateuco, si apre con la descrizione della famiglia di Giacobbe, emigrata in Egitto a causa della carestia. Questo nucleo familiare, pur trapiantato in terra straniera, era aumentato enormemente di numero e, grazie a Giuseppe, anche di fama e potere. Ma, con l'ascesa di una nuova dinastia faraonica, gli Ebrei cominciano a subire persecuzioni e proprio di questo tema si occupa il primo capitolo dell'Esodo, dove vediamo descritti tutti i provvedimenti persecutori del Faraone nei confronti degli Ebrei, che, fra l'altro, sono molto interessanti, perché sono serviti da paradigma per tutti i persecutori che, nei secoli successivi, si sarebbe scagliati contro la minoranza di turno.
Si nota, nell'opera del Faraone, una certa progressione, che va da provvedimenti quasi sciocchi, di nessuno conto apparentemente a misure più ampie, fino a una forma di demagogia nei confronti dell'opinione pubblica, come a preparare un vero e proprio sterminio programmato.
Basta accennare la prima frase che egli pronuncia riguardo a Israele: "Il popolo dei figli di Israele è più numeroso e potente di noi" (Es 1, 8). Quel popolo, costituito originariamente da 70 persone (cfr. Es 1, 5), si era moltiplicato nel corso di circa 150 anni; ma quanti potevano essere diventati? Forse cinquantamila, o, per dire un numero spaventosamente alto, centomila? Bene, di questo popolo Faraone dice che è più numeroso e potente degli Egiziani; un po' come sentiamo dire ancora oggi, con frasi del tipo: "Questi Ebrei sono numerosissimi, spaventosamente potenti; hanno le mani in pasta dappertutto, hanno in mano la finanza, i media, ecc.".
Per tornare al nostro testo, vediamo come quei primi provvedimenti persecutori culminano nell'ordine di Faraone di sterminare tutti i figli maschi nati agli Ebrei, gettandoli nel Nilo. E come atto di clemenza viene dichiarato di lasciar vivere le femmine.
Il secondo capitolo dell'Esodo ha inizio proprio in questo clima di persecuzione ormai sfrenata, in cui la schiavitù è arrivata a una forma estrema e dove i bambini vengono sistematicamente uccisi. Ma proprio in questo contesto nasce il grandissimo personaggio che è Mosè, così importante non solo per la nostra storia, ma anche per tutta la nostra cultura.
Il racconto biblico che parla della nascita di Mosè offre tante considerazioni e tanti problemi, che vorrei sottoporre alla vostra attenzione. Per esempio c'è una specie di contraddizione: ci accorgiamo che ci sono alcuni elementi di grandissimo interesse, sui quali il testo tace, mentre altri elementi, di interesse apparentemente meno vivace, sono descritti con molti particolari. Faccio un esempio: ci è detto in dettaglio come il bambino sia stato trovato in forma così bizzarra dalla figlia del Faraone, come poi sia stato allevato dalla madre e in seguito considerato figlio della figlia del Faraone; però di tutta la sua educazione, di come sia stato allevato a corte da quando cominciò ad aprir bocca all'adolescenza e poi fino all'età adulta, non ci è detto nulla.
Mosè cosa pensava di se stesso? Sapeva o no di essere un ebreo? E che atteggiamento aveva, lui, nei confronti degli Ebrei e del problema che la presenza di questo popolo sollevava? Che lingua parlava?
Da quello che possiamo intuire, sembra che fosse destinato a un avvenire brillante, ma di tutto questo il testo non fa parola!
Notate il contrasto: tanto silenzio da una parte e dall'altra parte abbiamo una descrizione minuziosa di come fosse la cassettina in cui il bambino fu deposto e affidato al Nilo. Il testo dice così: "Ma non potendo tenerlo nascosto più oltre, prese per lui un cestello di papiro, lo spalmò di bitume e di pece, vi adagiò il bambino e lo depose fra i giunchi sulla riva del Nilo" (Es 2, 3).
Quasi ci sembra di vedere la scena della madre che porta il bambino al fiume! Ma a noi cosa importa, tutto questo? Che differenza fa, per noi, sapere che la casettina era di giunco e non piuttosto di legno compensato? Ritengo che anche queste minuzie abbiano un significato profondo, una loro importanza nell'economia del testo.
Per capire bene i passi della Scrittura, i capitoli dei singoli libri, occorre andare alla ricerca delle parole chiave. Vi prego di credermi sulla fiducia, di prendere per buono quanto vi dico, ma poi dovete essere voi stessi a verificare le cose più a fondo, ad andare a leggere, a scrutare. Sono convinto che lo scopo dei nostri incontri sia il farvi uscire di qui con la voglia, l'interesse di andare ad approfondire gli argomenti e scoprire voi qualcosa di nuovo, che io non vi ho detto. Quello che vi dico qui, dovete riprenderlo e sottoporlo a ulteriore verifica in una vostra riflessione personale, in cui vagliate le cose e dite: "Forse è vero; forse è vero solo in patte; forse non è vero per niente!".
Ma andiamo avanti col nostro testo.
Non so se avete notato che in tutta la descrizione della storia di Mosè c'è un certo ritmo. Per esempio, nelle prime righe del testo c'è un'espressione che ritorna tre volte, ma con dei significati leggermente diversi ed è data dal verbo vedere:
- "La donna concepì e partorì un figlio; vide che era bello" (v. 2)
- "Ella vide il cestello fra i giunchi" (v. 5)
- "L'aprì e vide il bambino: ecco, il piccolo piangeva" (v. 6).
Proviamo a riflettere un po' sulla comparsa di questo verbo vedere. Nel primo caso, la madre vede che il bambino è bello, ben conformato e perciò decide di non farlo morire. Ma come? E se era brutto, invece, lo avrebbe eliminato? Come si può concepire una madre che decide di salvare suo figlio dallo sterminio, solo perché lo vede bello, ben fatto?
Nel secondo caso, ci è detto che la figlia del Faraone vede il cestello tra i giunchi e manda la sua ancella a prenderla; come avrebbe potuto farla recuperare, se non l'avesse vista?! E' ovvio. E poi, di nuovo, ci viene detto che, aperto il cestello, vide il bambino: di nuovo una cosa scontata.
Davvero sembra strano che l'autore sacro usi questa espressione in modo così banale, pleonastico, senza aggiungere nulla, in realtà, al testo.
Più avanti, ai versetti 11-13 del capitolo, ritroviamo questo stesso verbo ripetuto più volte e riferito a Mosè.
- "Mosè, cresciuto in età, si recò dai suoi fratelli e notò (vide) i loro lavori forzati" (v. 11)
- "Vide un Egiziano che colpiva un Ebreo" (v. 11)
- "Voltatosi attorno e visto che non c'era nessuno" (v. 12)
- "…uscì di nuovo e vide due Ebrei che litigavano" (v. 13).
Altre espressioni che si ripetono sono, per esempio "percuotere qualcuno" (ai vv. 11-13) o "uccidere qualcuno" (ai vv. 12-15) o ancora "risiedere con qualcuno" (vv. 15; 21-22).
Tutto questo non può essere casuale. E' importante che impariate a prestare attenzione a queste cose.
Torniamo al nostro Mosè. Che atteggiamento aveva nei confronti della propria identità ebraica? Cosa sapeva di sé? Gli era stato detto che la figlia del Faraone non era la sua vera madre? Non lo sappiamo, ma c'è una parolina che ci fa intuire qualcosa. Leggiamo il v. 11: "Un giorno Mosè, cresciuto in età, si recò dai suoi fratelli". Allora sapeva che gli Ebrei erano suoi fratelli di sangue? Forse sì, forse no.
Ma notiamo ancora qualcos'altro. Quando Mosè si presenta sulla scena della vita da adulto, lo vediamo, in tre casi successivi, sempre coinvolto in litigi. La prima cosa che fa, è di intervenire in una controversia tra un Egiziano e un Ebreo e uccide l'Egiziano (vv. 11-12). Poi interviene in una controversia tra due Ebrei, cercando di fermarli, ma poi è costretto a scappare perché gli fanno capire di essere a conoscenza dell'omicidio da lui compiuto (12-13).
La terza volta Mosè si trova in terra di Madian, presso il pozzo e interviene per difendere le figlie di Ietro dai pastori e attinge per loro l'acqua (vv. 16-17).
Vedete?, sembra che Mosè non riesca a star fermo, a tacere, davanti all'ingiustizia. E' per lui istintivo intervenire, fare qualcosa, agire; a volte esagera anche, a dire il vero. Mosè è sempre il difensore della giustizia disattesa.Però vorrei davvero sottolineare questo elemento: pensate, l'uomo più importante della storia di Israele, colui che ha raggiunto un rapporto tale di intimità con Dio che più nessuno dopo di lui è riuscito a realizzare, questo personaggio chiave, proprio lui, si presenta sulla scena come omicida; la primissima cosa che lo vediamo compiere è precisamente un omicidio! Si può discutere se avesse o no ragione di intervenire a quel modo in difesa dell'Ebreo, ma il fatto rimane e in verità suscita una certa perplessità. Il grande Mosè compare come omicida!
Allora, per approfondire la cosa, ci facciamo aiutare dai nostri Maestri, dai loro testi interpretativi, che noi chiamiamo midrash.
Cos'è un midrash? E' un testo di commento alla Scrittura divina. Noi abbiamo una letteratura midrashica vastissima, che si è sviluppata nel corso di molti secoli, per mano di molti molti maestri. Il termine midrash deriva dalla radice darash, cioè "ricercare"; il midrash è una forma di ricerca accurata nel testi sacro, un lavoro di scavo, di penetrazione, di commento accurato, di interpretazione. I maestri non volevano fermarsi al significato letterale, ma cercavano di capire le motivazioni profonde nascoste nelle parole e nei gesti dei personaggi biblici.
I maestri di midrash erano liberissimi nell'interpretazione del testo, perché volevano renderlo più vivace, più vicino al popolo, capace di parlare alla vita della gente. I maestri parlavano a persone che conoscevano il testo biblico a memoria e dunque cercavano di rendere il rapporto con le Scritture più interessante, più vivo; miravano a suscitare un interesse, una curiosità nell'ascoltatore in modo che poi fosse sollecitato a riflettere, a studiare da solo.
Allora, nel nostro caso, riguardo a questo racconto della vita di Mosè, abbiamo diversi midrashìm, diverse interpretazioni. E, attenzione, i Maestri tendono sempre a dare un volto ai personaggi biblici, a non lasciarli nell'anonimato e perciò scavano subito su questo aspetto.
Abbiamo visto, a partire dal v. 11, che Mosè incontra un Egiziano che percuote un Ebreo e poi due Ebrei che litigano fra loro. Non ci sono nomi, né volti precisi. Ma i maestri non si fermano alla superficie; indagano, studiano, scavano nelle parole del testo. Proviamo a seguirli.
Non vi sembra che ci sia una discrepanza tra il primo raccontino e il secondo? Cioè, come mai prima sembra che l'omicidio perpetrato da Mosè sia passato inosservato e solo il giorno dopo o poco dopo viene fuori che l'hanno visto? Cos'è che non quadra? Chi ha parlato? Qualcuno che ha visto o l'Ebreo salvato?
Fermiamoci in particolare sul v. 11: "Mosè vide un Egiziano che colpiva un Ebreo".
Purtroppo la traduzione è molto carente, perché il testo ebraico originale dice così: "Mosè vide un uomo - ish - egiziano che batteva un uomo - ish - ebreo".
Attenzione: non è un Egiziano che batte un ebreo, ma un uomo egiziano che batte un uomo ebreo. Cosa significa? La parola ish, qui ripetuta due volte, significa "uomo" e indica una persona di una certa importanza, un po' come il vir latino. Non è usata la parola adam, uomo in generale, ma ish e questo fa la differenza.
Quindi, se rileggiamo il testo, capiamo, adesso, che Mosè non ha visto un Egiziano normale che percuote un Ebreo normale, cosa che presumibilmente era normale e non faceva impressione a nessuno, ma qui c'è un personaggio egiziano; non è la semplice guardia carceraria, l'aguzzino egiziano che dà una sberla allo schiavo ebreo, ma un personaggio egiziano che colpisce un personaggio ebreo, una personalità che rappresentava qualcosa di più. Il gesto è simbolico, dunque.
Ma facciamo attenzione alla reazione di Mosè. Leggiamo, nel testo: "Voltatosi attorno e visto che non c'era nessuno". In ebraico, alla lettera, è così: "Si voltò di qua e di là e vide che non c'era un uomo - ish". Quindi, non è che non ci fosse nessuno lì attorno, ma non c'era un ish, cioè un personaggio importante. Capite? Può essere che la scena sia avvenuta in mezzo a una grande confusione di gente, di lavoratori, ma non c'era nessun personaggio importante.
I maestri si soffermano a riflettere e interpretare questo gesto di Mosè, questo suo voltarsi di qua e di là e ci offrono diverse spiegazioni.
Mosè si volta di qua e di là e guarda tutta quella folla di popolino che sta lì attorno, tutti quegli schiavi piegati sotto il peso del lavoro; ma nessuno reagisce, nessuno si muove. Tutti si fanno i fatti loro. Allora Mosè ha la reazione, si arrabbia contro questa indolenza, questa incapacità di reagire, di cercare giustizia e si fa giustizia da solo, mostra a tutti come ci si deve ribellare davanti al potere iniquo degli Egiziani.
Un'altra interpretazione ci conduce su un diverso percorso di riflessione. Mosè era un giovane di belle speranze, con un avvenire luminoso davanti a sé, probabilmente, essendo figlio della figlia del Faraone, studiava, andava a scuola, aveva imparato i principi della giustizia, i valori umani. Assiste a questa scena in cui un ufficiale egiziano colpisce ingiustamente un personaggio ebreo e vuole fare qualcosa. Si rivolge di qua e di là, cioè va a parlare con le varie istanze della giustizia egiziana, col superiore di quell'uomo, col giudice; forse va addirittura da suo nonno, il Faraone. Ma si accorge che non c'è nessuno, cioè che in Egitto nessuno è degno del nome di uomo, nessuno ama la giustizia. I maestri immaginano i colloqui del giovane Mosè con questi personaggi e la loro superficialità, il loro sminuire i valori: "Ma lascia perdere!", gli avranno detto, "Battere un Ebreo non è peccato! Tutte le cose che hai imparato a scuola sono chiacchiere". Allora Mosè prende la decisione di farsi giustizia da solo, visto che la giustizia ufficiale non funziona, è malata, è falsa. Molto attuale, vero?
C'è poi una terza interpretazione. L'espressione "vide che non c'era un uomo" viene resa come una presa di coscienza da parte di Mosè che quell'Egiziano - qui non importa più se fosse un personaggio importante o meno - non considerava quell'Ebreo come un uomo. Mosè riflette, considera la cosa da vari punti di vista e arriva alla conclusione che l'Egiziano ritiene l'Ebreo meno di un uomo, perché è uno schiavo.
Altri maestri, forse un tantino più vivaci, suggeriscono un'altra pista interpretativa. Mosè considera l'importanza della vita umana e sa che uccidere un uomo è una cosa grave, la più grave fra tutte, perché, secondo la tradizione degli antichi maestri, uccidere un uomo significa uccidere un universo, cioè con lui anche tutti quegli uomini che sarebbe nati da lui.
Allora Mosè si volta di qua e di là e considera la vita di questo Egiziano, ma vede, si accorge che non c'era un uomo, cioè che da lui non sarebbe nato nessun uomo, nel vero senso della parola. Costui aveva impostato la vita in modo tale che da lui non sarebbero potuti nascere dei figli degni di vivere, data l'educazione che lui avrebbe impartito loro. Da uno così non sarebbe uscito niente di buono.
Ancora un'altra interpretazione, più audace. I maestri si chiedono come sia possibile che questo Egiziano, ammesso che sia un personaggio di un certo rango, si vada a sporcare le mani picchiando un Ebreo. Di solito i capi fanno picchiare io sudditi da altre persone, non lo fanno loro direttamente; era così anche nel regime nazista.
Un grande maestro quale è Rashi ha immaginato che dietro questo episodio ci fosse un particolare di vita molto personale. L'espressione "si voltò di qua e di là" sta ad indicare che Mosè considera quello che l'Egiziano aveva fatto all'Ebreo a casa e nel campo. Sì, proprio così: prima a casa e poi nel campo. Cioè, siccome l'Ebreo era al lavoro, lui approfittava e andava a casa sua e sedurgli, a violentargli la moglie! Pensate che vigliaccheria! E non solo questo. Ma siccome l'Egiziano è un potente, fa quello che gli pare con la moglie dello schiavo, mentre lui sgobba sotto il sole e poi glielo fa anche capire. Quindi non è tanto che l'Egiziano percuotesse l'Ebreo, perché non si sarebbe mai sporcato le mani, ma lo sfotteva, lo prendeva spudoratamente in giro, anche davanti a tutti, tanto lui non poteva difendersi. Capite fino a che punto si arriva?
Quindi Mosè si volta di qua e di là e considera che questo tale non solo approfitta della moglie dell'Ebreo, ma lo prende in giro, glielo fa capire, lo beffeggia davanti a tutti. Per tutto questo, un uomo simile merita di morire.
Vedete come è importante scandagliare il testo, andare a fondo, farsi delle domande, fare attenzione alle parole usate e magari anche farsi aiutare dai maestri, che prima di noi, lungo i secoli, hanno passato la vita si questi testi sacri così importanti.
Comunque siano andate le cose rimane il fatto che Mosè si presenta come un assassino e questo fatto non è mai andato giù agli Ebrei. Perciò Mosè rimane sempre sotto accusa, sempre sotto l'ombra di questo suo atto.
Del resto sappiamo anche che egli fu punito severamente da Dio, che non gli permise di entrare nella Terra promessa. Ma perché non poté entrare? Perché Dio lo punì così? Qual era stato il grande errore di Mosè? Comunemente si pensa subito al fatto che egli abbia dubitato di Dio, riferendosi all'episodio dell'acqua scaturita dalla roccia di Numeri 20, 1-13, ma forse non è così.
Proviamo a considerare un po' meglio questo fatto, sempre interrogando i nostri maestri.Questa volta facciamo riferimento a un grande maestro italiano del secolo scorso: Shmuél Davìd Luzzatto. Egli, prendendo in esame la figura di Mosè, cerca di scrutare con attenzione proprio questo passo, in cui vediamo Mosè alla guida del popolo nel deserto, in un momento di particolare difficoltà per la mancanza di acqua. Dio suggerisce di parlare a una roccia, promettendo di far scaturire acqua da essa, ma Mosè, in qualche modo, glissa su questo ordine dell'Altissimo e, invece di parlare alla roccia, parla al popolo dicendo: "Ascoltate o ribelli: vi faremo forse noi uscire acqua da questa roccia?" (Nu 20, 10) e poi colpisce la roccia col bastone.
Dio pronuncia la sentenza contro Mosè e Aronne, dicendo che non sarebbero entrati nella Terra promessa (Nu 20, 13). Ma viene da chiederci quale sia l'errore commesso da Mosè. Forse la disobbedienza, perché non ha fatto esattamente ciò che Dio gli ha chiesto; oppure l'ira, manifesta in quel suo colpire la roccia.
Orbene, anche Luzzatto dice che possono esserci diverse interpretazioni. La più scontata è che Mosè avesse dubitato. Ma qualcuno afferma che, invece Mosè si è comportato male col popolo, perché ha reagito male alla loro richiesta di avere dell'acqua e li chiama ribelli. Ma, in realtà, a chi mai avrebbero potuto chiedere da bere, se non a lui, che era il loro capo? Mosè interpreta questa richiesta come un atto di ribellione del popolo e li tratta male, reagisce con ira, mentre un capo non deve lasciarsi trascinare dall'ira. Perciò è stato punito da Dio.
Un'altra interpretazione mette in luce un ulteriore difetto di Mosè e cioè un eccesso di protagonismo. Mosè vuole dimostrare al popolo che con un solo suo gesto, si realizza un evento miracoloso.
Al di là di queste indagini, che mettono l'accento su errori di Mosè, troviamo anche l'interpretazione che pone l'attenzione al vecchio peccato di omicidio che Mosè portava sulla coscienza. La punizione di Dio non lo raggiunge perché ha dubitato, o disubbidito o perché si è vantato di se stesso davanti al popolo, ma perché aveva ucciso quell'uomo in Egitto.
Abbiamo un midrash molto colorito, che immagina un dialogo, o piuttosto un litigio, tra Dio e Mosè poco prima della sua morte.
Mosè, vicino alla conclusione della sua vita, sa che non potrà vedere quella Terra promessa che era stata l'aspirazione di tutta la sua attività politica, religiosa e sociale; ha condotto fin lì il popolo, ma a lui non è dato di entrare. Questo non gli sta bene, gli pesa e perciò ingaggia un dialogo con Dio, una specie di lotta e comincia chiedendo: "Signore Dio, perché mi punisci così? Cos'ho fatto di male, da non poter entrare?". Ma l'Eterno non risponde; Lui non ha bisogno di dare spiegazioni a Mosè riguardo alle decisioni che ha preso. All'insistenza di Mosè, che chiede una risposta, Dio dice: "Di chi sei figlio tu?" e Mosè: "Sono figlio di Amran" e Dio: "E di chi è figlio Amran?". Così ripercorrono tutta la genealogia di Mosè fino ad Adamo. A questo punto Dio domanda: "Queste persone sono entrate nella Terra promessa?"; "No", risponde Mosè. Dice Dio: "E tu pensi di essere migliore di loro?Tu chiedi un privilegio, non accetti la punizione; cosa ritieni di avere di superiore a loro perché ti sia dovuto l'ingresso nella Terra?". Dio insiste facendo notare a Mosè che nessuno dei suoi discendenti ha chiesto niente, mentre lui sì. Perché questo? E a questo punto Mosè interviene affermando di essersi comportato meglio di tutti gli altri personaggi, di non aver fatto errori.
Ovviamente tutto questo è immaginario; può essere una concatenazione di pensieri che si è sviluppata nella mente di Mosè prima di morire. Ma i nostri maestri ci fanno immaginare Mosè che ripercorre tutta la sua vita: "Ho dedicato tutta la mia vita a fare il profeta; sono stato costretto da Dio a compiere una missione che non volevo nemmeno accettare e poi, alla fine, eco il benservito!". E insiste: "Certo che sono migliore di Adamo, che non è riuscito a rispettare quell'unica legge datagli da Dio e ha mangiato il frutto proibito. Adamo ha disubbidito e ha rubato!". In effetti Mosè non ha mai rubato niente, come attesta Dio stesso, quando dice: "Egli è l'uomo di fiducia in tutta la mia casa" (Num 12, 7).
E lui insiste, affermando di essere migliore anche di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, che hanno detto bugie, hanno commesso errori, hanno ingannato. Ma Dio, a questo punto, lo richiama e gli fa notare che nessuno gloi aveva di ordinato di uccidere quell'Egiziano, ma lui l'ha fatto. E' vero, non ha rubato, come Adamo, non ha detto bugie come Abramo, non ha ingannato come Giacobbe, però ha ucciso un uomo.
Mosè non si arrende e rinfaccia a Dio che Lui ha ucciso tutti i primogeniti egiziani, non un uomo solo! E Dio risponde: "Sì, è vero, ma io ho il potere di dare la morte e ridare la vita, tu no". E qui il midrash si chiude, con Mosè che tace e accetta la sentenza di Dio, per morire in pace "sulla bocca di Dio", cioè secondo il suo comando (cfr. Dt 34, 5).
Vedete, vi ho citato questo midrash proprio per farvi capire come nella mente di Israele sia rimasta quest'ombra nei confronti del grande Mosè, come una macchia, un peso che si fa fatica a mandar giù. Sembra che il popolo ebraico non sia riuscito mai a perdonare al suo capo di aver commesso quell'omicidio.
Ecco, mi premeva farvi conoscere almeno un po' qual è il modo di procedere nell'accostamento ai testi sacri. E poi ci sarebbe anche tutto l'ambito mistico, quello della qabalah, ma si andrebbe troppo lontano. Speriamo che Dio ci conceda di affrontarlo in altra occasione.
Conferenza tenuta il 29 giugno 1989 a Forlì