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Il Pidiòn, riscatto del primogenito
(Rav Luciano Meìr Caro)


Parleremo questa sera di un cerimoniale della vita famigliare ebraica, che si chiama "pidiòn habben", cioè "riscatto del figlio", oppure "pidion habbekòr", ossia il "riscatto del primogenito". Nella visione generale dell'insegnamento del testo biblico, secondo il quale tutto quello che noi abbiamo ci proviene come dono dell'eterno, è considerato opportuno che noi riconosciamo il dono di Dio e lo facciamo attraverso il gesto di dedicare le primizie a Lui. Ci sono, infatti, nel testo biblico, una serie di regolamentazioni sull'offerta delle primizie; quando si pianta un albero, ad es., non è possibile usufruire subito dei suoi frutti, ma dobbiamo dedicare i primi frutti a Dio, come riconoscimento che il bene viene da Dio e quindi la parte migliore è sua; questo riguarda sia il mondo agricolo, sia il mondo della natura umana. Per cui, seguendo le prescrizioni del testo biblico, quando ci nasce un bambino primogenito, provvediamo a una forma di riscatto. Il concetto generale è questo: essendo il primo nato da una donna, noi dobbiamo dedicarlo a Dio e accontentarci di godere soltanto dei frutti successivi. La dedicazione avviene attraverso un cerimoniale particolare; poiché abbiamo riconosciuto che il figlio appartiene a Dio, noi lo riscattiamo, mediante la corresponsione di un qualcosa di valore materiale. Il riscatto avviene attraverso l'intermediazione del sacerdote, del cohèn - questo ovviamente riferito al tempo storico in cui erano i sacerdoti a provvedere al culto nel tempio di Gerusalemme. Non dimentichiamo che il culto era legato anche a una serie di condizioni particolare, poiché il sacerdote viveva delle offerte presentate dal popolo, ma oltre a ciò egli si occupava anche di questioni riguardanti le professioni, cioè egli fungeva anche da medico, da avvocato, da giudice. Quindi le offerte diventavano anche una forma di retribuzione per queste altre necessità che lui faceva a servizio della società. Inoltre dalle offerte fatte al cohèn andava sempre prelevata una parte destinata ad opere di carattere sociale.
Nonostante che il culto sacrificale non ci sia più, noi, quando nasce un bambino primogenito, continuiamo anche oggi a mettere in pratica la procedura del riscatto del primogenito. Si chiama un cohèn, cioè un tale che, secondo la giurisdizione ebraica, deriva in linea paterna direttamente da Aronne, fratello di Mosè. Cerco di spiegare un po'. Il popolo ebraico anticamente era diviso in tribù, cioè in famiglie, che facevano capo ai figli di Giacobbe; Giacobbe aveva tanti figli: Giuda, Dan, Issacàr, Ashèr, Zevulùn, Beniamino e così via. Uno dei figli di Giacobbe era Levi, quindi i discendenti di Levi si chiamano Leviti; nell'ambito della famiglia dei Leviti c'era una famiglia particolare, quella in cui è nato Mosè; il fratello di Mosè si chiamava Aronne e i discendenti da Aronne in linea maschile hanno avuto la connotazione di sacerdoti. Quando Israele è entrato nella terra promessa, ad ogni tribù è stata affidata una parte di territorio; ai Leviti e ai sacerdoti, in vece, non è stato dato nulla, perché dovevano occuparsi non del lavoro della terra, ma di queste professioni liberali, insegnanti, medici, avvocati, ecc.
Il cerimoniale del riscatto è più che altro simbolico e prevede che il padre del bambino chiami un cohèn di sua scelta per fare questa bella festa di famiglia, con inviti, pranzo, regali, ecc. Il padre dichiara al cohèn: "Mia moglie ha avuto questo bambino che è primogenito" (sottolineo che è primogenito della donna, perché può accadere che un uomo si sposi più volte e così debba riscattare più primogeniti). Il cohèn allora interviene con una dichiarazione: "Se è primogenito, allora appartiene a Dio. Vuoi riscattarlo?". Il padre ovviamente dice sì e si procede a uno scambio: il padre del bambino da al cohèn un oggetto, di solito una moneta - non cartacea, ma che abbia un valore intrinseco, indipendentemente dal fatto che ci sia coniato sopra qualche cosa, ad es. di argento - il cohèn tiene la moneta e restituisce il bambino al padre. Il cerimoniale è molto semplice, ma è accompagnato da gioia e festa.
Cerchiamo, però di spiegare meglio come stanno le cose. Intanto perché la cosa possa avvenire, è necessario appurare che il bambino sia effettivamente primogenito. Per cui, prima di organizzare il cerimoniale, il cohèn deve avere un colloquio privato con la mamma del bambino per accertarsi. Potrebbe succedere, ad es. che la madre abbia avuto un aborto, nel quale occorre procedere a un'indagine molto attenta, per vedere di quanti mesi era il feto abortito. La cerimonia non avviene se il padre o la madre del bambino si chiamano Cohèn o Levi di cognome, per cui nella prassi, alla fin fine, è raro che questo cerimoniale avvenga, perché bisogna che il bambino sia effettivamente primogenito, che sia maschio e che nessuno dei due genitori abbia quei cognomi.
L'obbligo del riscatto del bambino spetta al padre; se il padre non lo fa, spetta al parente più prossimo, che può essere anche la madre. Nel caso in cui nemmeno il parente più prossimo provveda, allora spetta all'autorità ebraica preposta alla città dove è nato il bambino, o il rabbino o il sindaco. Ove nessuno sia intervenuto, l'obbligo spetta all'individuo stesso, nel momento in cui arriva alla maggiore età, cioè a 13 anni.
Ricordate che la circoncisione va fatta all'ottavo giorno dalla nascita; questa cerimonia, invece, va fatta non prima del 31° giorno dalla nascita. Questo trae origine dal fatto che nei tempi antichi la mortalità infantile era molto elevata e quindi si considerava un bambino effettivamente vitale solo dopo il 31° giorno dalla nascita. Questo per non creare problemi del tipo: "L'abbiamo riscattato e Dio se l'è preso lo stesso". È rimasta questa tradizione.
Un'altra cosa importante: ove per qualche motivo il bambino, riconosciuto primogenito, non fosse stato riscattato, gli mettevano al collo una specie di targhetta con scritto: "Da riscattare" e doveva tenersela fino a quando qualcuno non avesse provveduto al riscatto.
Il cohèn, prelevata la moneta d'argento, ha il diritto di adoperarla come vuole, per spese sue. Di solito tutte le comunità hanno delle monete tradizionali adoperate per questa occasione; per cui la moneta che il padre da al cohèn, non è sua, ma della comunità. Così il cohèn restituisce la moneta alla comunità e. il padre deve provvedere a riscattare la moneta per dare al cohèn il suo compenso. Nei nostri musei si trovano spesso queste monete. Ovviamente quando il cohèn si rende conto che la famiglia del bambino non ha mezzi, provvede a restituire al padre il denaro, ma deve farlo in una forma giuridicamente valida. Non può dire: "Ti restituisco questo denaro", perché renderebbe invalida la cerimonia, ma deve dire: "Siccome questo denaro è mio e io ne posso fare ciò che voglio, decido di fare un regale al bambino o a tua moglie".
Il testo biblico non parla di moneta come mezzo di riscatto, ma parla di colombi o tortore o altri animali; questo perché nel linguaggio biblico non circolava molto il concetto del denaro. Circolavano piuttosto altre cose, che avevano, però, un valore venale; quando si dice tortora o colombo, si vuoi dire quegli animali che anche il più povero possiede. Questo riguarda anche il riscatto dei primogeniti animali, che adesso, però, non avviene più.
Va detto anche questo: il cohèn, che deve provvedere a questa necessità, in realtà noi oggi non sappiamo con certezza se è un vero cohèn, perché, nell'ambito della popolazione ebraica, c'è molta gente che ha questo cognome -in ebraico, in italiano: Sacerdoti, Sacerdote, oppure all'araba: Kan, che vuoi dire la stessa cosa - non sappiamo se possiamo attribuirgli le connotazioni del cohèn biblico. Il cohèn, così com'è visto nella configurazione biblica, è quel tale che può far risalire le proprie origini ad Aronne, fratello di Mosè in linea maschile, senza che nella catena delle generazioni sia mai avvenuto un matrimonio proibito al cohèn in quanto tale. Cerchiamo di capire: nella visione biblica delle cose, è cohèn chi nasce da Aronne. Però per i cohanìm c'erano dei divieti che riguardavano l'aspetto matrimoniali: a un cohèn non è permesso sposare determinate classi di donne. Un ebreo qualsiasi, che non sia cohèn, può sposare una vedova, una non ebrea entrata a far parte dell'ebraismo, una prostituta; un cohèn, invece, no, perché è addetto al servizio del santuario. Lui poteva sposare solo una donna vergine, costumata, che fosse ebrea di nascita; al limite poteva sposare una vedova, se era stata moglie di un altro cohèn. Se un cohèn non osservava queste prescrizioni, il figlio rimaneva ebreo, ma non era più cohèn. Quindi può avvenire che un uomo si chiami Cohèn di cognome, ma non lo sia di fatto, perché il padre, ad es. ha sposato una vedova o una prostituta. Tutti, dunque, sono sospetti, perché nessuno può dimostrare che non sia mai avvenuta una tale violazione nel corso delle generazioni. Questo problema riguarda anche un altro aspetto. Come mai non viene ricostruito il santuario di Gerusalemme? Prima era stato costruito da Salomone ed è stato distrutto dai babilonesi; poi al tempo di Esdra è stato ricostruito e l'hanno distrutto i Romani; perché adesso non lo si costruisce più? Le difficoltà sono tante, una peggio dell'altra. Intanto nella zona dove sorgeva il santuario, c'è adesso la moschea di Omàr ... Per tradizione il santuario andrebbe costruito esattamente là dove era prima, ma nessuno di noi sa più al centimetro come erano i piani. E se anche immaginassimo di fare uno scavo e trovare i piani esatti, il che è già fantascienza. Poi un latro problema: chi ci mettiamo dentro? Il testo biblico dice che quelli che sono al servizio del santuario, devono essere dei cohanìm. E dunque, chi è in grado di dimostrare di esserlo veramente? Io credo che questa sia una delle volontà di Dio: che manchino le basi pratiche perché la ricostruzione possa avvenire. Un altro elemento è il tipo di culto che veniva fatto nel santuario, che consisteva appunto nell'immolazione di tanti animali, cosa che nei tempi antichi era considerata con la massima naturalezza, ma non credo che oggi nessuno pensi che si possa in qualche modo servire Dio immolando degli animali. Quindi è un qualcosa che fuoriuscirebbe dal nostro punto di vista, anche se, a questo proposito, io voglio dire, con buona pace degli animalisti, che il rapporto che c'era nel mondo antico con gli animali, era molto più corretto di quello che c'è adesso. L'animale, nel mondo antico, era considerato quasi come facente parte della famiglia; il sacrificare l'animale voleva dire dedicare a Dio un qualche cosa che ci sta particolarmente a cuore e che costituisce il nostro patrimonio. Bisogna pensare a un rapporto con gli animali straordinariamente diverso da quello a cui noi siamo abituati. Come possiamo tradurre in termini moderni la dedicazione a Dio di qualcosa che ci sta particolarmente a cuore? Gli ebrei hanno già fatto questo, perché con la distruzione del santuario, hanno sostituito il sacrificio degli animali con la preghiera. Non è che io pensi che io faccio una bella preghierina e Dio è contento; Dio non se ne fa un bel niente della mia preghiera, anzi è una forma quasi di ricatto. Ma pregare vuoi dire dedicare a Dio un qualche cosa che a me sta molto a cuore: il tempo. Il tempo, nel mondo moderno, è un corrispettivo di quello che era l'animale nel mondo antico; da esso noi traiamo una quantità di benefici. In questo consiste la sfida: cerchiamo di tradurre nel nostro mondo lo stesso concetto di culto a Dio, cosa che non è sempre facile, perché, quando ci toccano nella tasca, vengono fuori un sacco di scuse.
Nel culto sacrificale c'era una forma di rispetto per l'animale, una forma di assistenza sociale, perché una parte era destinata ai poveri e una forma di retribuzione per coloro che esercitavano delle professioni liberali. Una forma di retribuzione che era in relazione al prodotto interno lordo, cioè la gente ricca paga più decime e se ci son più decime i sacerdoti, i leviti, ecc, che sono medici, avvocati, hanno di più, invece se la produzione è poca, hanno di meno anche loro. È un discorso molto ampio, che, visto soltanto in superficie, ci scandalizza, ma noi dovremmo cercare di penetrarci dentro e di capire quello che il principio.
Ma c'è anche un'altra considerazione che voglio proporre alla vostra attenzione, che è questa. Perché parlavo prima di moda? Anche ammesso che tutte le considerazione che ho fatto sono tutte sbagliate, io mi faccio questa domanda: se il testo biblico mi dice che io devo fare certe cose, se queste cose non sono in linea con il punto di vista moderno, le devo fare o no? C'è anche chi sostiene: "Perché devi fare tutte queste considerazioni? C'è un'intelligenza superiore che ti ha detto di fare queste cose e devi farle e basta, senza chiederti se è opportuno o no. Questo ragionamento di non fare le cose che oggi fanno storcere il naso, è pericoloso, può essere pericoloso; lo dico come provocazione. A un certo punto, se una cosa è in linea col nostro modo di pensare, la facciamo, se non è in linea, non la facciamo. E chi decide? Tutto questo se partiamo dal presupposto che il testo biblico è di origine divina; se non c'è questo presupposto, cade tutto. Ma se ci rendiamo conto che quello che dice il testo biblico, ce lo dice il Padre eterno, non dobbiamo porci il problema se questa cosa è alla moda o no; fallo e basta!". Queste possono essere provocazioni. Io ritengo che il testo biblico è stato congegnato in modo tale che, fino a quando il sacrificio era capito dalla gente, si doveva fare, con lo sviluppo della società e del modo di pensare, si sono create le condizioni perché questo non potesse più essere fatto. Ma questo mi pone dei problemi.
Riguardo al testo biblico, voglio dire, o meglio ripetere, una cosa molto importante. Qualche volta ho l'impressione di essere preso in giro, perché ci sono delle parole che ritornano con delle connotazioni leggermente diverse; e questa è la sfida. C'è una parola, che diventa la chiave per la comprensione di tutto il brano. Noi non stiamo leggendo il Corriere della sera o il Corriere di Ravenna, ma stiamo leggendo un testo che ci proviene da Dio, per cui ci si deve riflettere sopra, ci si deve imparare qualche cosa, dobbiamo approfondire, calarci dentro il più profondamente possibile, ma sempre senza avere l'ardire di dire: "L'ho capito!", perché se diciamo così, vuoi dire che non abbiamo capito niente, ma sono in una fase di comprensione; devo scavare, devo indagare e, ogni volta che lo rileggo con attenzione, ne faccio scaturire delle cose in più. È quell'immagine che ho proposto tante volte della roccia colpita da un martello; ogni volta che si colpisce una roccia con un martello, ne scaturiscono migliaia di scintille e sono sempre scintille nuove, e questo senza fine, perché è un testo che viene da Dio. Questa è la grande attenzione che noi dobbiamo porre al testo biblico e soprattutto dobbiamo sempre cercare di individuare la parola chiave.
Nella tradizione ebraica una delle norme più sentite e considerate più importanti è quella di provvedere al riscatto dei prigionieri: quando veniamo a sapere che una persona è stata imprigionata o rapita, noi abbiamo l'obbligo di darci da fare per provvedere alla sua liberazione. Questo si chiama pidiòn shevuìm: il riscatto dei prigionieri e per prigionieri si intende non chi è in prigione perché ha commesso una colpa, ma chi è rapito. C'è stato un periodo storico in cui, soprattutto nell'area del Mediterraneo, in cui il rapimento era molto diffuso e le comunità ebraica si sono sempre sentite interpellate fortemente da questo problema e tutti si tassavano a questo scopo. Un grande rabbino - siamo nel 1100, in Germania - Meìr da Rothenburg, era stato imprigionato dal principe Rodolfo, il quale, sapendo di questa cosa, ha preso la persona più prestigiosa della comunità ebraica e l'ha imprigionata per poi chiedere alla comunità di riscattarlo. Questo rabbino dal fondo della sua cella ha emesso una sentenza, proibendo ai membri della comunità di riscattarlo, perché sapeva che se l'avessero fatto, quelli avrebbero continuato a fare il giochino dei rapimenti. È rimasto in prigione ed è presumibilmente morto. Se frequentate le comunità italiane di una certa datazione, trovate delle cassette per le elemosine appunto dedicate al riscatto dei prigionieri.


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