Menu principale:
Introduzione alla Qabalah - Alcuni accenni
(Rav Luciano Meìr Caro)
Per motivi di onestà devo dirvi che io non sono la persona più adatta a parlarvi di Qabalah, perché la mia formazione mentale è molto lontana da questo mondo e da questo modo di vedere le cose. Fin da giovane mi ero reso conto di essere carente in questo settore e mi sono messo alla ricerca di un maestro che mi aiutasse a capire il mondo della mistica ebraica, ma non pensate che sia facile trovare qualcuno che sia disponibile a rivelare i misteri della Qabalah. Infatti in Italia i miei tentativi andarono tutti a vuoto e così, trovandomi in Israele per perfezionare i miei studi, feci un altro tentativo. Anche lì non fu facile, ma alla fine, casualmente, incontrai una persona di grande valore in questo campo. Ma lui capì subito il tipo che ero e la formazione che avevo ricevuto e quindi mi mise in guardia, mi avvisò che mi sarei presto stancato di studiare con uno come lui, perché anche solo il linguaggio che lui avrebbe usato, mi avrebbe messo in difficoltà. Infatti aveva ragione.
Io avevo avuto una preparazione razionalistica, molto diversa dalla sua e poi ero pieno di me stesso; ero giovane, pensavo di essere il rabbino più preparato, più in gamba che si potesse trovare. E così, già alla prima lezione, quella sull'alfabeto ebraico, abbiamo avuto difficoltà. Lui è partito chiedendomi se sapevo leggere il testo biblico, se conoscevo l'ebraico e io, figuratevi!, non avevo alcun dubbio. Ma lui voleva farmi capire che le lettere ebraiche, lettere divine con cui Dio ha creato il mondo, non erano importanti solo per il loro significato, ma anche per il loro suono e la loro forma. Io rimasi subito abbastanza perplesso e così lasciai perdere. Forse adesso sarei un po' più ricettivo anche verso questo tipo di approccio.
A parte la mia esperienza personale, cerchiamo di affacciarci su questo mondo della Qabalah per comprendere almeno qualche cosa.
Intanto una premessa. In seno all'ebraismo ci sono due atteggiamenti contrapposti nei confronti di questa scienza: da una parte c'è chi sostiene che essa sia profondamente estranea all'ebraismo e quindi accostarsi ad essa, studiarla, approfondirla, è una perdita di tempo e anche un pericolo, perché può sviare dalla vera filosofia ebraica e dal modo autentico di approcciare la vita quotidiana.
Dall'altra parte, invece, c'è chi sostiene che la Qabalah costituisca l'essenza più vera dell'ebraismo e perciò è indispensabile accostarsi ad essa, studiarla, comprenderla.
Però si innesca un processo strano per cui i maestri cabalisti tendono a tenere nascosta la loro scienza in merito e fanno molta fatica a trasmettere le loro conoscenze. E così nasce il fenomeno di una Qabalah di bassa lega, da salotto. Insomma, vedete, che le cose non sono così lineari, così semplici.
E come per ogni altra mistica, anche per la Qabalah ebraica, il fine è quello di aiutare l'uomo ad avvicinarsi a Dio. Partendo dal presupposto dell'esistenza di Dio, si cerca di compiere un percorso di scoperta, di approfondimento e quindi di incontro, il più possibile ravvicinato. Del resto, questo è il fine di ogni essere umano: cercare Dio e avvicinarsi a Lui il più possibile, pur entro tutte le limitazioni che la nostra natura porta con sé.Mi piace sottolineare che proprio dall'Italia sono giunti dei contributi molto notevoli alla mistica ebraica. Se rimane vero che i testi fondamentali di Qabalah sono stati scritti fuori dall'Italia, però rimane pur vero che dal nostro paese sono venuti dei contributi formidabili per la diffusione dei testi mistici. Fra di essi il più importante in assoluto è certamente il libro dello Zohar, cioè "splendore". Attribuito dalla tradizione ufficiale a un certo Shimòn bar Jochai, studioso palestinese del III secolo, esso è però legato a vicende leggendarie che lo fanno vicino alla nostra nazione. Il nostro Shìmon avrebbe visitato Roma e durante il suo soggiorno avrebbe dato dimostrazione del suo potere guarendo la figlia di un imperatore da una possessione demoniaca
Un altro personaggio di spicco in questo campo è il nostro Moshè Haim Luzzatto, padovano, morto a soli 40 anni nel 1747. Egli elaborò una versione personalizzata di Qabalah, considerata abbastanza eretica presso gli ambienti ebraici di allora. Addirittura fu sottoposto a processo, perseguitato psicologicamente e costretto ad andarsene dalla sua città; dopo aver peregrinato per varie città d'Italia, approdò in Palestina, dove morì a causa di un'epidemia. A mio avviso varrebbe la pena rivalutare questo personaggio.
Un'altra figura importante è Haim Joseph David Adulai: uomo dall'eccezionale personalità, scienziato, mistico che, trasferendosi dalla Palestina a Livorno, rende questa città uno dei maggiori centri cabalistici del tempo.
E' interessante il suo nome: era conosciuto con l'acronimo di Hjdà, parola che, in ebraico, significa "enigma".
In Livorno egli fonda una scuola di studi cabalistici, che, alla sua morte, viene continuata da Elia Benamozegh, un personaggio famosissimo, vissuto tra il 1820 e il 1900.
Ma accanto e in contrapposizione alla "scuola mistica" livornese, si delinea sempre più la "scuola razionalistica" padovana, diretta da un altro personaggio di spicco, un certo Shmuél David Luzzatto.
Le diatribe, le dispute, le discussioni fra le due scuole non mancano certamente, ma la polemica che hanno coltivato ha dato risultati molto interessanti e costruttivi, sempre nel massimo rispetto delle persone e delle idee, ma solo puntando sul valore teologico delle idee che portavano avanti.
Solo la scuola razionalistica è riuscita a sopravvivere, dopo circa un centinaio di anni di confronto serrato, per cui, dalla fine dell'800 in poi, tutti i rabbini italiani hanno fatto la loro preparazione presso la scuola padovana di Luzzatto. Io stesso sono erede di questo filone.
Forse si può dire che l'ultimo adepto della scuola livornese sia stato il rabbino Toaff, ma in modo molto sfumato e diluito.
Voglio farvi un esempio di una discussione su cui si accanivano i maestri delle diverse scuole. Sapete che lo strumento nazionale ebraico è lo shofàr, il corno d'ariete, che viene suonato in particolari circostanze religiose. Il problema nasce sulla domanda: "Perché suoniamo lo shofàr?". Luzzatto sosteneva che si suona perché il testo biblico impone di suonarlo e questa è ragione sufficiente, che non ha bisogno di spiegazioni; si mette in pratica una disposizione divina e questo basta. Al massimo si può fare riferimento alla nostra storia, nel senso che il corno di ariete ci fa ricordare le origine pastorali dei nostri padri. Oppure si può richiamare l'episodio del sacrificio di Isacco, sostituito all'ultimo momento proprio da un ariete, che Abramo vede davanti a sé.
Dal canto suo, invece, Benamozegh, richiama tutto un significato cosmico che verrebbe risvegliato dal suono del corno d'ariete. Non si tratta di una trombetta qualsiasi, ma di uno strumento divino, il sui suono può portare alla salvezza o alla distruzione dell'universo. Quindi è importante indagare su questi suoni.
Ma mettiamo da parte le implicazioni italiane della mistica ebraica e cerchiamo di entrare, per quanto è possibile, nella spiegazioni di ciò che è la Qabalah.
All'origine di essa c'è la rivelazione di Dio nei confronti dell'uomo; attraverso la Parola biblica, Dio ha voluto manifestare la sua volontà all'uomo. Ma questa rivelazione è dinamica, è in divenire, perché deve rinnovarsi ad ogni generazione e per ogni essere umano. Infatti l'uomo non è abbandonato a se stesso, ma è in una connessione strettissima con tutto l'universo; la concezione antropologica della Qabalah colloca l'uomo in questo contesto molto ampio, cosmico, per cui ogni sua azione ha dei riflessi, positivi o negativi, su tutto il mondo. Per la Qabalah nel comportamento dell'uomo non c'è assolutamente nulla di irrilevante; anche dall'azione più insignificante possono derivare conseguenze enormi sul piano cosmico.
Vorrei sottolineare brevemente il significato del termine Qabalah. In maniera sommaria possiamo dire che esso significa "tradizione", ma se andiamo un po' più a fondo, vediamo che la dicitura completa, che troviamo in testi antichi, sarebbe "Shalshélet qabalah", cioè "catena della tradizione". E poi c'è anche la sfumatura del significato "accettazione". Dunque la Qabalah implica da una parte una tradizione, una consegna di qualcosa attraverso una catena, un legame di consequenzialità che si sviluppa da individuo a individuo, da generazione a generazione, ma allo stesso tempo chiama in causa la decisione di accogliere ciò che viene trasmesso.
E quando si parla di catena della tradizione si pensa anche al legame tra Dio e l'uomo. In senso figurato possiamo dire che Dio tiene in mano un'estremità della catena, che porge all'uomo, perché la afferri e la tenga stretta. Insomma: la Qabalah ci fa incontrare con un Dio che si mette alla ricerca dell'uomo, che fa proposte all'uomo, che vuole entrare in relazione con lui; quasi come se Dio avesse bisogno dell'uomo e non fosse completo senza di lui. Sembra quasi una bestemmia, ma il concetto è questo. In questo modo Dio chiede all'uomo l'impegno di rimanere sulla terra, ma di essere rivolto al cielo.
La Qabalah offre un sistema, un metodo particolare di avvicinamento a Dio attraverso lo studio del testo biblico; un sistema dal quale però i maestri mettono in guardia, perché pericoloso, rischioso, in quanto molto elevato. Secondo la mistica è aperta davanti all'uomo la via al paradiso, detto pardés, con un termine non ebraico, ma presumibilmente persiano o greco. Pardés è formato da quattro lettere - pe, resh, dalet e samech - le quali sono state prese dai mistici come iniziali di quattro parole particolari: peshàt, cioè il senso letterale del testo; rémez, il senso accennato; deràsh, che è l'interpretazione, la ricerca e infine sod, ovvero il mistero.
E da qui si articola tutto un cammino di contatto con il testo biblico, uno studio, un approfondimento, che può portare molto lontano, ma che può essere anche pericoloso, in certo senso.
Quindi il primo gradino consiste nel considerare il testo biblico dal punto di vista letterale, semplicemente tenendo conto della frase che ho davanti; poi cerco di lasciarmi interpellare da quegli elementi, anche piccoli, che accennano a qualcosa, che mi fanno intuire qualcosa oltre la lettera; poi passo all'interpretazione, con l'aiuto di tutti gli strumenti possibili, le mie conoscenze storiche, geografiche, letterarie,a antropologiche e qui c'è possibilità di agire in modo molto libero, pur di farlo in buona fede, con coscienza retta, senza voler estrapolare dal testo cose che non ci sono.
E, a questo punto, sarei giunto già molto avanti. Ma manca ancora il quarto passaggio: quello che mi permetterebbe di entrare, di penetrare nel mistero del testo. Ma qui inizia il pericolo, il rischio di vler indagare cose troppo superiori a noi.
La tradizione dice che solo 4 maestri sono riusciti ad arrivare al pardés, a percorrere tutte e quattro le tappe dello studio mistico e solo uno di loro non ha subito danni. Infatti ben Hazzai fu colto da morte improvvisa, ben Zomàh impazzì e Elishà cadde nell'eresia.
Solo il grande rabbi Akivàh tornò dal pardés in pace, beshalòm. Sì, lui è penetrato nel paradiso, nel frutteto di Dio, ma poi ne è uscito; aveva intravisto le chiavi dell'universo, ma ha scelto di tornare indietro.
Il Talmud mette in guardia su questo tipo di studio e dice che è pericoloso, inopportuno e non adatto a tutti. Addirittura, in un altro punto, afferma che sarebbe meglio non essere mai nato per chi indaga su quattro cose: ciò che è in alto, ciò che è in basso, ciò che è prima e ciò che è dopo. Non so se questo vuol alludere agli errori che si possono commettere oppure al fatto che chi si dedica a queste cose, poi si ritrova in un mondo per lui troppo stretto, come un pesce fuor d'acqua.
Per rimanere sempre nel contesto dello studio biblico, vorrei accennare ad un particolare curioso e cioè al fatto che da sempre ci si è interrogati sul perché la Bibbia inizi con la seconda lettera dell'alfabeto ebraico, la bet e non con la prima, come sembrerebbe più logico.
Infatti, alla prima pagina della Bibbia, alla prima riga, cominciando a leggere da destra verso sinistra, noi troviamo la parola bereshít, in "principio".
Come sempre, le interpretazioni sono moltissime, ma io ve ne accenno solo due, che mi sembrano importanti. Innanzi tutto questa bet posta all'inizio, siccome ha valore numerico 2, vuol dirci che nell'universo ci sono due realtà: quella visibile e quella invisibile; al di là di quello che percepiamo naturalmente con gli occhi, c'è qualcos'altro, c'è un mondo superiore, l'al di là.
Poi la nostra lettera ci suggerisce qualcosa di importante anche attraverso la sua forma; infatti la bet - ? - è chiusa nella sua parta anteriore (non dimenticate che l'ebraico si legge da destra a sinistra), è chiusa sopra e sotto. Quindi sembra invitare a non voler indagare su ciò che era prima, su ciò che è sopra o sotto, quando si studia il testo biblico, ma a guardare in avanti, verso il futuro. Questo è ciò che Dio ci ha lasciato; il resto ci è precluso, appartiene a Lui.
Ovviamente i cabalisti non la pensano così, perché loro si spingono sempre oltre, sempre al di sopra e verso le profondità.
Ancora una nota sulla concezione della creazione. Dalle divine Scrittura sappiamo che Dio ha creato l'universo attraverso la parola: "Dio disse e … fu", ma la nostra tradizione viene ad affermare che il mondo fu creato con 10 parole. Forse 10 richiama il numero dei comandamenti dati da Dio sul Sinài.
Ma ciò che è importante è il potere generante associato alla parola. Pensate che addirittura c'è una storiella che racconta di due rabbini che passavano tutti i venerdì, giornata dedicata alla preparazione dello Shabbàt, a studiare il racconto della creazione e, così facendo, tralasciavano i preparativi per la festa. Quindi, giunti ormai al tramonto, non restava loro che compiere un miracolo, adoperando le parole per creare un vitello di tre anni particolarmente gustoso, così da poter preparare in tempo il pranzo del Sabato.
Uno dei problemi presi più in considerazione nella riflessione mistica ebraica è quello del Nome santo di Dio. A partire dal testo biblico, Dio viene identificato con diversi nomi. Primo fra tutti il sacro Tetragramma, che è illeggibile, impronunciabile, santissimo, formato appunto da quattro lettere: yud, he, waw, he ????. Non ha alcun senso rendere questa sequenza con i nomi di Geova o Jahvé; è davvero meglio non dire niente, non conoscere la pronuncia di questo Nome, perché altrimenti si rischia davvero di ripetere a vuoto o anche in maniera blasfema questo Nome ineffabile. Il popolo ebraico ha fatto proprio questa scelta di dimenticare quale fosse la pronuncia del Nome di Dio, piuttosto che rischiare di pronunciarlo invano.
Sempre riguardo a ciò vorrei accennarvi una dottrina mistica molto particolare, quella di Abraham Abulafia, personaggio importante della scuola cabalistica di Gerona, fondata all'inizio del XIII secolo. Egli arrivò ad affermare che manipolando le 4 lettere del Nome di Dio si poteva fuoriuscire dalle leggi che regolano la natura, proprio perché è attraverso di esse che Dio ha creato l'universo. Dice lo Zohar: "La sintesi di tutti i mondi, di quelli di sotto e quelli di sopra sono le quattro lettere del Tetragramma".
Oltre al Tetragramma ci sono altre denominazioni con cui viene indicato Dio, per esempio Elohìm oppure Shaddài, ma tutte sono di difficile interpretazione.
A volte la Bibbia preferisce usare delle circonlocuzioni, piuttosto che dire direttamente Dio, attribuendo a Lui azioni o parole. Nel libro dell'Esodo, per es., quando si racconta dell'apparizione divina a Mosè nel roveto, si dice che l'angelo del Signore apparve (Es 3, 2).
Oppure ricorre a termini come "gloria di Dio" o "spirito di Dio" o anche "presenza di Dio", la famosa shekinà. In alcuni testi successivi alla Torah, come per es. il libro dei Proverbi, si parla spesso della "sapienza" - chokmà -, come personificazione di Dio.
Alcune traduzioni aramaiche antiche sostituiscono il Nome di Dio con "parola di Dio" - memrà.
Insomma, sono tutti tentativi per proteggerci, in un certo senso, dal pronunciare in maniera sconsiderata e blasfema il sacro Nome di Dio.
Pensate che la tradizione mistica ebraica sostiene la tesi che tutta la Scrittura sia una continua ripetizione del Nome di Dio, nascosto nei racconti storici, negli episodi della vita dei personaggi, nelle profezie. E questo porta a una considerazione molto importante: non si può leggere la Bibbia come un libro di storia, o un romanzo o un testo normativo. Se così fosse, davvero converrebbe leggere altri libri di questo genere, che sono fatti meglio della Bibbia.
Alcuni studi di questi ultimi anni, fatti attraverso l'elaborazioni dati elettronica computerizzata, danno ragione alle tesi che affermano l'esistenza di messaggi codificati nel testo biblico, cioè tutta una successione di lettere, di parole, di alternanze, di causalità, oppure anche di numeri e posizioni particolari delle singole lettere, che nascondono in sé tutta una serie di rivelazioni incredibili.
Io personalmente non mi sono mai occupato di queste cose, non ho mai voluto approfondire. Voglio farvi solo un paio di esempi, appena accennati, senza andare troppo a fondo.
Se prendiamo Esodo 6, 14 ss., dove ci viene offerta la genealogia di Mosè e applichiamo un certo numero misterioso, unendolo alle lettere che si trovano in una certa posizione, riusciamo a ricavare una parola particolare "rambam". E Rambam è l'acronimo di Maimonide, un grande personaggio della nostra tradizione, che portava anche lui il nome di Mosè. Questo ci fa capire che nella genealogia di Mosè, così come ci viene trasmessa dal libro dell'Esodo, era già compreso questo personaggio, questo altro Mosè, che sarebbe vissuto 2000 anni dopo.
E non solo questo! Ma, se si utilizza un altro numero misterioso, si riescono a trovare addirittura i titoli dei libri scritti da Maimonide.
L'altro esempio che volevo farvi riguarda il libro del Levitico, Vayikrà. Qualcuno è riuscito a ricavare dati e cifre specifiche della Shoah.
Quindi ribadisco l'importanza delle singole lettere e della loro posizione nel testo sacro, l'importanza dei numeri, della successione delle parole; tutto ha un suo significato profondo per la mistica.
Riguardo alle lettere dell'alfabeto ebraico, per es., si potrebbero dire un'infinità di cose. Fra i trattati di mistica ce n'è uno molto importante, redatto da rabbi Akivà, che si intitola proprio "Le lettere dell'alfabeto"; qui il maestro offre il significato spirituale di ogni singola lettera dell'alfabeto. Pensate che lui aveva ideato quest'opera per insegnare l'alfabeto ai bambini, ma poi è diventato un testo fondamentale di mistica.
Leggendo, capiamo l'importanza enorme di ogni singola lettera. Per es., prendiamo la shin - ?. Se osserviamola sua forma, possiamo vedere che assomiglia a una triplice fiamma che si innalza verso l'alto e perciò richiama il fuoco; e guarda caso la parola fuoco, in ebraico esh, richiama molto il suono di questa lettera. Allo stesso modo anche la parola uomo, ish trova assonanza con questa lettera. Perciò un approccio di tipo mistico al nostro alfabeto richiama senz'altro una consonanza tra la lettera shin e i termini esh e ish.
Lo stesso discorso vale, ad es., per la lettera lamed - ? , che corrisponde alla nostra l. In ebraico, come in italiano, questa lettera va un po' fuori dalle righe, va verso l'alto. Pensate alla parola molto familiare shalom: contiene sia la shin, con la sua carica di fuoco, che la lamed, con la sua volontà di fuoriuscire, di salire in alto. Sono significati e suggestioni molto ricche, che però non tutti si sentono di accogliere e seguire.
La tradizione mistica ebraica si avvale di diversi testi, prodotti lungo un arco di tempo molto ampio. Dei testi più antichi si hanno solo citazioni parziali e non ci sono pervenuti integralmente, come alcuni commenti ai primi capitoli della Genesi oppure come un'opera di cui si conosce il titolo "Maasé merkavà", cioè "L'opera del carro", che fa riferimento alla visione del profeta Ezechiele, descritta nel primo capitolo della sua profezia e che rappresenta la presenza di Dio, la sua maestà, attraverso questa figura misteriosa somigliante a un carro, appunto la merkavà. In quest'opera alcuni maestri vedono una delle chiavi per arrivare a Dio.
Attorno al VI secolo appaiono altri testi, che conosciamo parzialmente, come il "Libro dei palazzi", cioè delle costruzioni, dei modelli della creazione. Poi c'è il già citato "Le lettere dell'alfabeto" di rabbi Akivà.
E ancora abbiamo il "Sefer Ietzirà" cioè il "Libro della creazione"; a mio avviso è un testo difficilissimo, quasi incomprensibile, che ha come scopo quello di insegnarci com'è avvenuta la seconda fase della creazione, cioè non la creazione della materia dal nulla, ma come questa materia è stata modellata da Dio.
L'attribuzione del libro è sconosciuta; pensate che qualcuno dice sia stato scritto addirittura da Abramo, ma non ci sono prove né a favore né contro. La critica moderna è arrivata ad affermare che sia stato scritto probabilmente tra il II e il III secolo dell'Era volgare sulla base di idee e concetti che circolavano, però, già da molto prima. In Italia il testo è stato stampato per la prima volta a Mantova nel 1562.
Degna di nota è l'apparizione, in quest'opera, della dottrina delle Sefiroth, un caposaldo della Qabalah. Provo ad accennare qualcosa su questo argomento, così difficile.
Innanzi tutto il termine sefiroth, al singolare sefirà, ha significato incerto; qualcuno dice che evochi la parola "sfera", altri, invece, lo fanno derivare da una radice ebraica che vuol dire "cifra", "numero" e perciò le sefiroth sarebbero la valenza numerica di determinate cose.
Per quanto mi riguarda, proprio non so cosa sono, in realtà, queste sefiroth, ma rifacendomi alla dottrina mistica posso dire che sono come delle emanazioni primordiali, dei principi creativi attraverso i quali si è manifestata la potenza creatrice di Dio sull'universo.
Ma sotto questa affermazione si nasconde un problema grosso e cioè come si possa giustificare il fatto che Dio, puro spirito, abbia creato la materia. I mistici dicono che Dio, appunto, si è servito di elementi intermediari, che sono le nostre sefiroth, le quali hanno permesso la realizzazione di questo passaggio tremendo dallo spirito alla materia. Quindi la potenza creatrice di Dio si è espressa prima creando gli elementi più vicini a lui e poi, via via, quelli sempre più distanti e questo percorrendo la via delle sefiroth, attraversando tutti i 10 passaggi che esse offrono, essendo le sefiroth 10. E quali sono queste 10 sefiroth? Proviamo a vederle velocemente.
La prima, quella più vicina a Dio, il "piolo che regge tutto", come in una tenda, è la sefirah keter, cioè "Corona", detta anche razòn, "volontà", intendendo la volontà, il volere di Dio.
Poi vengono le altre 4 sefiroth centrali: Conoscenza, Bellezza, Fondamento e Regno, a cui seguono due gruppi di tre sefiroth ciascuno: Sapienza, Bontà, Eternità e Intelletto, Forza, Gloria.
Al di sotto delle dieci sefiroth c'è il "trono della gloria", il kissé hakkavòd, a sua volta costituito da dieci settori.
Poi c'è il mondo formativo, composto da dieci gruppi di angeli della pace, in opposizione a dieci gruppi di angeli della distruzione.
E abbiamo anche il mondo dell'azione, composto da sette sfere celesti, al centro delle quali sta la terra.
Ma non è tutto. Infatti la teoria mistica della creazione afferma che oltre alle 10 sefiroth intervengono anche altri elementi creativi e questi sono le 22 lettere dell'alfabeto ebraico. Quindi, se facciamo la somma, abbiamo 32. E non a caso! Perché 32 è un numero importante dal punto di vista della mistica; infatti in antichissimi testi ebraici è detto che 32 sono i sentieri della sapienza divina, cioè le vie per acquisire la conoscenza delle cose. Questo a dire che non c'è una strada, una modalità sola per accedere alla conoscenza, alla verità, ma la si può raggiungere in molti modi. Premesso questo, devo però dire che il numero 32, in lingua ebraica, è formato da due lettere particolari, la lamed e la bet, che valgono, appunto, rispettivamente 30 e 2 e che vengono così a formare la parola lev, cioè "cuore". Ma attenzione!, perché "cuore" non vuol dire quello che intendiamo noi, in senso occidentale, cioè i sentimenti, ma cuore, in senso semitico, vuol dire mente, cioè volontà, decisione.
Ed esiste tutta una dottrina mistica sulle 22 lettere dell'alfabeto, che vengono suddivise in gruppi. Innanzi tutto ci sono le tre lettere madri, che costituiscono il seme di tutte le altre lettere e sono: la alef, la shin e la mem. Esse rappresentano, rispettivamente, aria, fuoco e acqua.
Poi ci sono le 7 lettere doppie, che hanno dato origine ai 7 pianeti, ai 7 giorni della settimana e ai 7 anni del ciclo degli anni sabbatici nel computo biblico. Esse sono tav, resh, pe, caf, dàlet, ghimel, bet.
Infine abbiamo le 12 lettere semplici, in corrispondenza coi mesi dell'anni, coi segni dello zodiaco e governano i cicli e i ritmi naturali: he, waw, zayin, chet, tet, yud, làmed, nun, sàmech, 'ayin, tzadìk e kuf.
E, ovviamente anche i numeri corrispondenti ad ogni lettera, hanno un loro potere particolare, anche a seconda di come vengono manipolati. Per es., nella dottrina mistica viene detto che il 3, il 7, il 10 e il 12 sono elementi generatori.
Vorrei passare, ora, a parlarvi del testo più importante della dottrina mistica cabalistica, che è il libro dello Zohar, lo "splendore".Un'opera enorme, costituita da una trentina di volumi, tutti a commento della Torah, il Pentateuco, versetto per versetto. La sua attribuzione rimane incerta, anche se la critica moderna tende a riconoscerne la paternità a Moshè de Leòn, vissuto in Spagna o in ambiente spagnolo nel XIII secolo. La tradizione, invece, attribuisce il libro a Shimòn ben Jochai, un illustre maestro del II sec. dell'Era volgare, ma anche a Mosè stesso, oppure ad Abramo o addirittura ad Adamo. Vedete, già solo per questi dati tecnici siamo in difficoltà, figuratevi per quanto riguarda il testo, la sua stesura e la sua interpretazione, che, a mio avviso, è difficilissima.
La parola Zohar significa "splendore" e questo subito ci rimanda all'elemento della luce, così importante per la mistica ebraica, perché ricollega all'opera creatrice di Dio, che con la sua parola ha creato l'universo. E la prima parola che disse è: "Sia luce!" e luce fu (Gen 1, 3). Ma questa luce, creata prima ancora degli astri, non è la luce come pensiamo noi, è una luce divina; i maestri dicono che tale luce sia riservata ai giusti nel mondo futuro. A noi non è dato di vedere questa luce con i nostri occhi, ma la riceveremo in eredità nel mondo futuro.
Prendendo in considerazione la creazione, il testo pone molta attenzione all'uomo e ci offre il concetto, che appare qui per la prima volta, di "uomo superiore", Adàm eleòn, che è, forse, l'uomo primordiale, "harishòn", colui che è misura di tutte le cose, quella creatura per la quale Dio trova compiacimento nel mondo da lui creato. Infatti la mistica coltiva la teoria per cui Dio avrebbe creato molti mondi, che, in seguito distrusse, perché non lo soddisfacevano pienamente. Solo quando creò il suo Adàm disse: "E' molto buono". Però i maestri affermano che non è scontato che il nostro universo non subisca la stessa sorte dei precedenti.
E perché l'uomo è così importante? Perché è una dimora di Dio, è come una shekinà, un tempio di Dio. Il termine shekinà, infatti, deriva dalla radice verbale shakàn, che vuol dire "abitare". Adàm è il tempio in cui Dio dimora e abita, così come ha abitato nel tabernacolo, nel mishkàn (torna la stessa radice).
Quindi noi uomini siamo presenza di Dio, provvidenza visibile di Dio, collaboratori di Dio nell'opera della creazione; sì, come una provvidenza inferiore rispetto alla provvidenza superiore di Dio stesso.
Ma per essere veramente tutto questo, occorre che noi offriamo a Dio la nostra avodah, il nostro servizio, la nostra azione benefica, che esercitiamo vivendo rettamente in questo mondo. Secondo lo Zohar non esiste alcuna azione umana che non abbia un influsso sull'universo, o positiva o negativa; niente è banale, senza significato, ma ogni cosa si ripercuote sull'universo, o in bene o in male; sta a noi scegliere quale contributo dare al mondo, se partecipare alla creazione o alla distruzione dell'universo. Sì, ogni azione negativa e malvagia diminuisce lo zohar, lo splendore divino, la luce primordiale presente nel mondo.
Ecco perché i salmi affermano che l'uomo giusto è il fondamento del mondo: se non ci fossero i giusti, il mondo crollerebbe, non potrebbe sussistere.
E poi il tema della preghiera, che occupa anch'esso un posto importante nel libro dello Zohar.
Ogni preghiera ha una sua vita autonoma, espressa, ancor più che dalle parole di cui è composta, dall'intenzione dell'orante ed è proprio l'intenzione che eleva la persona che prega verso la luce. Entra in gioco la parte spirituale dell'uomo e non semplicemente la ripetizione vocale di parole e questa parte spirituale proviene dall'emanazione più prossima a Dio. E qui devo far riferimento a un concetto, ancora una volta, molto difficile, incomprensibile: quello dell'En sof, alla lettera "senza fine". Di cosa si tratta? E' un qualcosa di illimitato, nel tempo e nello spazio e particolarmente vicino a Dio. Le parole della preghiera, se fatte con intenzione, concentrazione, kavannà, possono penetrare in questo mondo.
La dottrina mistica spiega che il rapporto tra l'uomo e Dio può essere paragonato a una fiamma; infatti la fiamma è composta da due elementi: una luce splendente esterna e una luce più azzurra interna. Una luce rappresenta Dio e l'altra l'uomo ed entrambe costituiscono un insieme che realizza l'unità tra spirito divino ed essenza dell'uomo. Insomma, in ogni essere umano vive una luce divina, che realizza, possiamo dire così, una continua creazione; ma perché questo si realizzi occorre che l'anima viva in rapporto con Dio, in una continua purificazione, realizzata attraverso la preghiera fatta nel modo giusto, non solo con le labbra.
Ma qui entra in gioco un altro concetto fondamentale, quello della trasmigrazione delle anime. Se l'anima non compie il suo percorso di purificazione, viene condannata a ripetere l'esperienza di doversi legare a un corpo. Ognuno di noi ha un compito ben preciso da realizzare, una purificazione da compiere e, finché non arriviamo alla completezza di tale purificazione, dobbiamo necessariamente rimanere legati a un corpo. Nessuno può sapere quante trasmigrazioni ha compiuto un'anima o quante anime ancora stiano vagando nell'universo alla ricerca di un corpo a cui legarsi per poter continuare il proprio percorso di purificazione.
Vedete? Queste sono cose molto difficile, molto pericolose, perché molto affascinanti. Ma noi non possiamo dimostrare la loro autenticità, perché non abbiamo una conoscenza adeguata di queste realtà. Perciò occorre stare molto in guardia.
Voglio sottolineare ancora qualcosa sul concetto di creazione, che nello Zohar, occupa un posto molto importante.
Dal testo di Genesi, sappiamo che "In principio Dio creò il cielo e la terra … e lo spirito di Dio aleggiava sulla superficie dell'abisso" (Gen 1, 1ss.). Ma cosa vuol dire spirito, o aleggiare o abisso? Io non lo so. E poi, questa espressione così strane e misteriosa - ruach Elohìm - che noi traduciamo con "spirito di Dio", cosa significa in realtà? Qualcuno lo intende come "vento", addirittura con un'accezione di forza eccezionale, di impetuosità, qualcun altro lo intende come "respiro", "alito" di Dio. Ma, considerando la radice da cui la parola ruach deriva, può essere accostata anche ad altri termini, come reach, che significa "odore" o come revach, cioè "spazio".
Quindi il termine ruach porta in sé tutte queste accezioni di significato. E' una realtà che passa dal respiro, dall'alito, al soffio e quindi alla parola, una parola che crea, come vediamo dal racconto di Genesi 1: "Dio disse e la luce fu… Dio disse e… fu". Dunque è un passaggio dal pensiero di Dio alla parola. E ruach dovrebbe essere, appunto, l'espressione della concentrazione del pensiero di Dio, che poi si allarga e diventa parola. Scusate i giri di parole, ma siamo in un campo molto difficile.
Queste considerazioni ci portano a prendere in esame un altro concetto molto importante della dottrina mistica ebraica: lo tzimtzum, che, letteralmente, vuol dire "concentrazione". E' quel processo per cui una cosa grande si riduce, si limita e nel nostro caso abbiamo l'Infinito, il Pensiero di Dio, il suo piano infinito, che si concentra, si autolimita, si autoriduce, si mette alla nostra portata, affinché noi uomini possiamo afferrarlo.
Cito lo Zohar: "Dio si fa piccolo, per abitare in mezzo a noi, che siamo piccoli". E fa questo a favore nostro, per offrirci una parte della sua libertà, della sua sapienza.
Ma cosa avviene dopo il processo di "concentrazione"? Cosa segue allo tzimtzum? Avviene la creazione dei cosiddetti kelìm, cioè i vasi; sono i contenitori della luce primordiale, alcuni più vicini a Dio, altri più distanti. Ma lo Zohar ci informa che è avvenuto anche un altro fenomeno, inspiegabile: la rottura di alcuni di questi vasi, quelli più vicini alla sorgente, a Dio e rompendosi hanno disperso i loro cocci nell'universo, creando così il caos, il turbamento nel creato.
Secondo alcuni sarebbe compito degli uomini, con la loro buona condotta, il ricomporre questi vasi spezzati. E qui passiamo a tutta la tematica antropologica, che ci offre una visione molto positiva dell'uomo, come elemento fondamentale della creazione.
All'uomo è affidato uno strumento eletto per aiutare Dio, per collaborare alla sua creazione e questo elemento è la preghiera, il culto che egli presta al suo Dio, ma può essere anche il suo lavoro, le sue azione, insomma la sua avodàh, termine che racchiude in sé tutte queste accezioni.
Da queste considerazioni, poi, il passaggio ad altre conclusioni pratiche è molto breve. Con la cacciata degli Ebrei dalla Spagna, come abbiamo già detto, assistiamo a una forte diffusione delle teorie mistiche, anche come forma di consolazione e forse di fuga da una realtà diventata molto pesante e questo opera anche un cambiamento all'interno del sistema di pensiero cabalistico, nel senso che si comincia a tendere a voler utilizzare la mistica per intervenire fattivamente sulla realtà.
Un discendente di Mosè Cordovero, Arì il Leone, di origine spagnola, esporta fino in Galilea queste concezioni, dando vita a una nuova scuola cabalistica a Safed. Per alcuni, a questo punto, la mistica ebraica comincia ad assumere connotazioni magiche, quasi di stregoneria. Infatti Arì, il fondatore di questa scuola, affermava che chi riusciva ad andare molto avanti negli studi e nelle pratiche mistiche poteva addirittura acquisire dei poteri grazie ai quali era in grado di intervenire sulla realtà e cambiarla. Lo studio approfondito della Parola di Dio, della Torah offrirebbe un potere quasi creativo, come quello di Dio, per cui una persona può agire al di là delle leggi fisiche e naturali. Non che intenzionalmente la persona voglia agire in modi strani e diversi; a volte è indipendente dalla sua volontà e si ritrova agìta da forze superiori a lei, come nel caso della scrittura automatica o delle emanazioni luminose dal proprio corpo. Insomma, si viene a creare una situazione non facile da gestire, percepita come un'anomalia, un peso non desiderato.
Davvero queste realtà sono pericolose, perché basta un nulla per scivolare nel peccato, nella vanagloria che poi porta alla magia e quindi alla distruzione della persona stessa, che si perde, si smarrisce.
Lo Zohar aiuta a compiere un percorso di riflessione attenta su questo tema così delicato della stregoneria e lo fa partendo dal passo notissimo di Deuteronomio 6: "Ascolta Israele… amerai l'Eterno tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutte le tue facoltà". Il che significa che tutte le nostre facoltà devono essere indirizzate e finalizzate all'amore di Dio. E se questo non avviene, se le nostre energie non sono impegnate verso il fine ultimo della nostra esistenza, che è l'amore di Dio, allora succede che hanno il sopravvento gli istinti, in noi. E la più forte delle pulsioni umane, lo sappiamo bene, è quella sessuale. E' terribile pensare che tutta una conoscenza interiore acquisita può andare dispersa, se l'uomo non continua a rimanere rivolto verso il suo Dio. proprio come è successo ai nostri progenitori, che, a un certo punto, si sono lasciati sedurre dal serpente. Un filone interpretativo afferma che proprio a partire da quell'esperienza col serpente, Adamo ed Eva hanno cominciato ad avere rapporti carnali.
E' interessante notare che la parola "serpente" - nachàsh - in ebraico ha la stessa radice, ma con un leggero spostamento di accento, della parola nàcash, cioè "stregoneria".
Quindi se noi seguiamo il serpente e abbandoniamo le nostre pulsioni ai suoi consigli, arriviamo alla stregoneria, alla lontananza da Dio, ma se proiettiamo tutte le nostre passioni, le nostre energie vitali verso Dio, allora possiamo avvicinarci sempre più a Lui, unirci alla sua opera di creazione e redenzione dell'universo.
Vorrei ritornare ancora un attimo sul concetto che la mistica ha di creazione e di uomo.
Rabbi Meìr, vissuto nel II secolo dell'Era volgare, affermava che il procedimento cosmico della creazione consisterebbe di tre passaggi: dalla luce alla scorza che ricopre la luce e poi di nuovo alla luce. E c'è un gioco di termini e di assonanze, perché luce, in ebraico è ???, mentre scorza, o pelle è ???, con la differenza di una sola lettera. Quindi ci sarebbe una luce, che avvolge l'universo e poi un qualcosa di materiale, una pelle, che lo ricopre. C'è la luce sopra, la luce dentro e tra le due luci una pelle, la parte materiale; ma le due luci possono comunicare tra loro come per un'osmosi o come per il principio della fisica nucleare di Einstein, per cui l'energia luce può attraversare e trasformarsi.
Per quanto riguarda l'uomo, invece, emerge un'immagine particolare, che mostra l'essere umano come preso nella contraddizione costante, nella lotta tra il bene e il male, tra la sottomissione a Dio e la ribellione, tra il timore e l'audacia. Cosa succede? L'uomo è innanzi tutto preso dentro una lotta interiore, con se stesso e questa lotta, poi, lo pone in una situazione di contrasto anche con Dio. L'uomo diventa una specie di guerriero, impegnato in una lotta costante con la vita. Spesso capito che egli sopprima la vita, non solo fuori, ma anche dentro di sé, perché comincia a comportarsi da malvagio e fa precipitare la propria vita nella morte, nel peccato, nella corruzione, nell'odio. E così facendo, trascina con sé anche tutta la creazione, tutto l'universo, utilizzandolo solo come strumento del suo piacere, dissociandolo del tutto da Colui che lo aveva creato per il bene dell'uomo.
Lo Zohar, però, riesce ad offrire una possibilità di riscatto anche da questa situazione negativa di autodistruzione e afferma che, a un certo punto, il male finisce per distruggersi da sé, si esaurisce attraverso la sua stessa azione. E così il bene, nascosto dentro il male, può tornare ad avere il sopravvento. E l'uomo, piano piano, recupera la sua armonia, riesce a riorientare il bene che è in lui a Dio. Insomma, il conflitto, a questo punto, lascia il posto all'amore e all'unità.
Amore e unità che ci introducono in un altro mistero, in un'altra rivelazione della mistica, che prende le mosse dal valore numerico dei due termini ebraici. Infatti "amore" - ahavà, - ha lo stesso valore numerico, 13 (1+5+2+5), di "unità", "uno" - echad, - (1+8+4).
In sostanza, allora, la Qabalah ci dice che l'uomo può realizzare la sua unificazione e l'unificazione del mondo attorno a lui attraverso l'amore, grazie all'amore.
Ma amore è inteso anche nel senso di conversione, di ritorno a Dio. C'è tutto un cammino che l'uomo può compiere, un passaggio dalla morte alla vita, il cui termine ultimo è proprio l'ingresso in una forma di vita piena. Israele diventa, in questa visuale, il modello dell'uomo, incarnando in sé tutta l'umanità che ha bisogno di compiere il suo cammino di redenzione. Israele disperso fra le nazione, esiliato, diventa immagine di quell'esilio interiore che tutta l'umanità vive, di quella dispersione spirituale profonda che affligge tutti i figli di Adamo, chiamati, però a liberazione. E con il ritorno alla Terra Santa, considerata l'ombelico del mondo, santuario del Re, Israele conduce con sé misticamente tutta l'umanità, aiutandola ad avviarsi verso un rinnovamento, che deve essere universale e cosmico.
Ci tengo a ripeterlo: queste sono cose molto difficili, ma anche molto affascinanti, che richiedono uno studio, un'attenzione particolari, perché, come abbiamo visto, è molto facile lasciarsi prendere dall'ebbrezza della mistica e trovarsi magari fuori strada, persi in concetti troppo elevati, troppo oscuri per noi.
Ora vorrei tentare di passare a un contatto un po' più diretto col testo dello Zohar. Ovviamente faccio una grossa cernita, proponendovi i passi più accessibili.
Per esempio, sul tema della morte, abbiamo alcuni capitoli molto interessanti, che forse possono farci anche sorridere, per le immagini che utilizzano. Proviamo a vederli.
L'elemento molto particolare, che accompagna la morte, secondo lo Zohar, è un gallo nero, che apparirebbe alla persona che sta per morire; questo animale apre una specie di cortina, si affaccia e chiama l'uomo in fin di vita, ma è solo lui a poter vedere questo animale,non le persone che eventualmente gli stanno accanto.
Il gallo nero è considerato figura dell'arcangelo Gabriele, uno dei più vicini a Dio, che viene mandato per accompagnare l'uomo nel suo ultimo passaggio da questa vita alla vita futura.
Forse può esserci anche un significato di tipo linguistico, siccome in aramaico la parola uomo e la parola gallo coincidono: entrambe si dicono ghever, o gavàr.
Ma questa immagine rimane comunque misteriosa. Però non è da eliminare, né da snobbare, perché ancora oggi, in certe tradizioni ebraiche, soprattutto nord africane, è rimasta la presenza di un gallo nei funerali; un gallo sgozzato o seppellito, oppure donato ai poveri.
Ma viene da chiedersi come sia possibile per una persone morente vedere questo gallo. La dottrina mistica dice che all'uomo in fin di vita vengono date delle qualità in aggiunta, cioè un'anima supplementare, che appunto gli permette di vedere cose altrimenti invisibili.
E in questa visione ampliata, diciamo così, la persona compie il suo trapasso e in quel momento vede i suoi cari che gli vengono incontro dall'al di là. E qui si compie il giudizio, nel senso che se lui si è comportato bene, riconosce le persone e le vede sorridenti , felici, pronte ad accompagnarlo nel mondo delle delizie; esse lo salutano, lo accolgono e gli mostrano le bellezze del mondo futuro.
Se invece si è comportato male, lui non riesce a riconoscere i suoi cari ed essi tacciono davanti a lui, col volto triste, mentre emettono dei lamenti (il testo dello Zohar dice che emettono dei "guai!"). In questo caso l'anima non può entrare subito nel mondo futuro, ma deve ancora attendere finché il corpo venga inumato; solo allora verrà afferrata da esseri negativi, che gli mostrano cose terrificanti e la fanno entrare nei sentieri della Geenna.
Leggendo questa pagina, sembrerebbe che il tormento dell'anima dell'uomo empio duri fino al momento dell'inumazione del corpo, dopo di che tutto si placa. Ma questa è una lettura solo superficiale.
E com'è il lutto secondo la nostra tradizione? C'è un lutto molto stretto, che dura sette giorni dopo la morte di un parente; poi c'è un lutto meno stretto che, invece, si protrae per trenta giorni e infine un lutto ancora meno stretto che dura da 11 mesi a un anno, a seconda delle differenti tradizioni.
Secondo lo Zohar, durante i primi sette giorni dopo l'inumazione l'anima del defunto vaga continuamente dal cimitero a casa sua, da casa sua al cimitero e soffre per la sofferenza dei suoi cari. Li vede in lutto e nel piante e anche lui soffre per questo.
A questo riguardo la normativa ebraica ci dice di non prolungare oltre il dovuto il lutto e la tristezza, perché questo rattrista l'anima del nostro caro defunto. E' giusto piangere, ma nella misura dovuta.
Un altro assaggio di contatto più diretto col testo vorrei offrirvelo riguardo al tema dei rapporti fra l'uomo e la donna.
Secondo lo Zohar i rapporti tra l'uomo e la donna sono la traduzione, lo specchio dei rapporti tra Dio, che si manifesta e agisce nella sua Provvidenza e l'uomo.
Il testo biblico insegna che Dio, nel suo creare l'essere umano, ha pensato a una creatura maschile e femminile, l'uomo e la donna, appunto; non può esistere creatura di Dio che non abbia in sé questa doppia valenza, maschile e femminile, che costituisce la completezza, la pienezza di ogni creatura.
Non è possibile che l'uomo e la donna, vivendo separatamente, abbiano vita piena e completa; sono manchevoli, incompleti. E' precisamente l'unione dell'uomo e della donna che realizza l'essere completo, creato secondo l'immagine di Dio. E Dio cerca proprio l'essere umano completo; quasi quasi, sembra dire lo Zohar, l'uomo senza la donna e la donna senza l'uomo, non possono nemmeno ricevere piena benedizione da Dio, non possono essere dimora della Provvidenza di Dio. In questa ottica, allora, capiamo bene che il matrimonio diventa la via privilegiata alla santità, lo strumento che permette all'uomo e alla donna di raggiungere la vita ultraterrena.
L'unione tra l'uomo e la donna è una realtà sacra nell'ebraismo e in particolar modo nella concezione cabalistica. Il rapporto sessuale, visto come massima espressione dell'unione tra uomo e donna, è realtà sacra, benedetta, perché realizza la volontà piena di Dio. Perciò tutte le volte che un uomo e una donna vivono questa esperienza, dovrebbero farlo nella consapevolezza che loro due insieme stanno realizzando la volontà di Dio creatore.
Lo Zohar non disdegna di scendere nei particolari riguardo l'atto sessuale fra uomo e donna, ad es. indicando quali sono le ore più propizie per accoppiarsi. Dice il testo: "Il momento più propizio è in qualsiasi giorno della settimana a mezzanotte. E perché a mezzanotte? Perché questo è il momento in cui il Santo - benedetto Egli sia - si delizia nel Gan Eden con le anime dei giusti".
Questo suggerimento, ovviamente, è utile alle persone comuni, mentre per gli studiosi che si applicano continuamente alla Torah non è necessario, perché loro, possono comprendere da sé quale sia il momento più propizio. Ma anche per loro vale il suggerimento di accoppiarsi almeno una volta la settimana, particolarmente il venerdì sera. Facendo ciò, è come se vivessero un'unione intima e vitale con la Divinità stessa; sì, come l'uomo sposa la donna, così deve vivere il suo rapporto intimo d'amore col suo Dio.
Prima ho parlato di Provvidenza divina. E' interessante sottolineare il nesso profondo che esiste tra la provvidenza divina e l'essere femminile e questo mette in luce un aspetto più materiale dell'essere maschile, mentre la donna è più spirituale. Addirittura si fa riferimento alla Provvidenza divina come "madre" di tutte le cose.
Questi aspetti mi sembrano molto belli, anche se io ho dovuto fare un condensato di diverse pagine dello Zohar.
Spero di avervi aiutato ad aprire la vostra mente su un mondo immenso ed affascinante, ma anche molto difficile, come sono andato ripetendo; magari può esservi rimasta la voglia di approfondire ancora di più l'argomento, per trovare la bellezza delle ricchezze spirituali della nostra Tradizione.
Rielaborazione libera da trascrizioni di due conferenze tenute da rav Caro a Forlì nei mesi di aprile e maggio del 1994.
(sr. M. Anastasia di Gerusalemme, Carmelo di Ravenna - ottobre 2009)