radici ebraiche - amicizia ec romagna

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L'importanza delle radici nella lingua ebraica
(Rav Luciano Meir Caro)


Il discorso sulle radici nella lingua ebraica può essere visto da diverse angolature; io spero di riuscire a raccogliere in maniera sintetica e chiara alcuni dei concetti più importanti, in modo da fornirvi alcuni elementi utili.
Partiamo dalla lingua ebraica. Per noi la lingua ebraica è qualcosa di straordinariamente importante, perché di essa si è servito Dio per trasmetterci il messaggio biblico e per creare l'universo. Non bisogna dimenticare che, secondo il testo biblico, Dio ha creato il tutto servendosi della parola. Quindi le parole, o meglio i singoli elementi delle parole, le varie lettere, sono in qualche modo il protoplasma della creazione, come qualcuno ha voluto chiamarle. In parole più semplici possiamo dire che le lettere sono i mattoni della creazione. Dio dice e quella parola che Lui ha detto si è trasformata in realtà; dall'idea alla realtà. E' un discorso che forse fa anche parte del patrimonio culturale di ognuno di noi, ma in particolare faceva anche parte del modo di pensare degli antichi semiti, i quali pensavano che ogni parola avesse una sua valenza personale, in qualche modo. Quindi il dire o non dire una determinata parola può avere delle influenze in qualche modo cosmiche; il pronunciare una parola in qualche modo sollecita il realizzarsi del contenuto di questa parola.
Da questo concetto partono diverse modalità di interpretazione del testo biblico che sono tipiche della tradizione ebraica. Quando noi accostiamo il testo biblico, lo facciamo leggendo le singole parole, cercando di capirne il significato, ma cerchiamo anche di approfondire e di penetrare nel testo esaminando quali sono le singole lettere che compongono le parole e non solo, ma anche i suoni e le forme delle singole lettere.
Patendo dal presupposto che Dio si è servito di queste lettere per creare il tutto, significa che queste lettere hanno una valenza straordinariamente importante.
Vi faccio l'esempio della parola esh, che vuol dire fuoco, scritta con le lettere alef e shin. Tale parola ha anche una valenza onomatopeica, cioè il suono di questa parola evoca ciò che esprime. Non è senza significato che esista anche la parola ish, che vuol dire uomo. Ma nell'uomo non ci sono forse anche certi elementi di fuoco? Per es. l'uomo è un distruttore, quando lascia fuoriuscire da sé le proprie pulsioni e ne combina di tutti i colori, come leggiamo nei giornali. Ma c'è anche un elemento positivo, perché l'uomo tende a un fuoco interno che lo fa protendere verso l'alto.
Queste due parole hanno in comune la lettera shin, formata da una barretta orizzontale, dalla quale fuoriescono, tendendo verso l'alto, tre barrette verticali, che potrebbero indicare la fiamma che si protende verso l'alto.
Possiamo proseguire. Abbiamo anche la parola isshà, che vuol dire donna.
Questa alef, che sta all'inizio di tutte queste parole, per comodità nostra diciamo che è senza suono, ma in realtà la lettera alef ha un suono leggerissimamente aspirato. Se sentite parlare una persona di lingua madre yemenite, sentirete dei suoni che noi non potremmo mai riprodurre.
La differenza tra ish e isshà è costituita da due letterine che sono la yud e la he, che corrispondono alla parola yah, che è una delle denominazioni di Dio.
Sembrano giochetti, ma in realtà c'è qualcosa di più profondo. I nostri maestri accostano ish e isshà, uomo e donna, cioè coppia. Se c'è tra di loro la parola yah, funziona tutto bene e dal loro connubio possono nascere dei figli, rendendoli, così, collaboratori di Dio. Ma se tra i due non c'è questa parolina, che vuol dire Dio, rimane solo la parola esh, cioè il fuoco. O in una coppia c'è la presenza di Dio, o si scatena il fuoco, fiamme e fulmini.
Quando leggiamo il testo biblico in ebraico, noi lo leggiamo scandendo le parole. Ma nel testo originale, cioè nei primi testi scritti che comparirono, non si trovano le parole differenziate tra loro, ma c'era solo una successione di lettere, senza nessuna interruzione tra l'una e l'altra. Quindi la suddivisione che facciamo adesso, per es. appena apriamo il libro della Genesi e iniziamo a leggere "Bereshìt barà Elohìm" è una specie di interpretazione nostra, una deformazione del testo.
Cerco di confondervi le idee il più possibile, per stimolarvi.
Un antico maestro del XII sec. diceva una cosa che ci fa cascare dalle nuvole e cioè che chi legge il testo biblico come facciamo noi, parola per parola, cercando di interpretare le parole, le parti etiche, normative, descrittive, narrative, fa un'operazione di scarsa importanza, perché, a pensarci bene, l'Antico Testamento, cos'ha di speciale rispetto ad altri testi? Dal punto di vista etico, per es., le varie civiltà umane, che si sono succedute nel tempo hanno prodotto delle cose dal punto di vista sicuramente non inferiori a quelle contenute nella Bibbia.
Lo stesso vale per l'aspetto normativo. E' vero che la Bibbia offre delle norme utili, ma in fondo, la legislazione romana non è più grandiosa?
Dal punto di vista narrativo la Bibbia è davvero un bel libro, ma forse ci sono altri libri anche più belli, lasciando da parte l'origine divina o no.
Allora, cos'ha di speciale il testo biblico? Qualcuno dice che chi si accosta alla Bibbia come a un semplice libro, è come chi guarda un iceberg solo dal punto di vista della parte emersa, mentre la sua parte maggiore è invisibile.
Lo stesso bisognerebbe pensare della Bibbia.
Il testo biblico così come l'abbiamo noi, in realtà non è altro che una successione ininterrotta del nome di Dio, che può essere espresso, secondo la mistica ebraica, in 72 modi diversi. Se si riesce a vedere quello, si riesce davvero a leggere la Bibbia, altrimenti si capisce veramente poco. Sembra un discorso da matti, questo che ci viene fatto dal nostro maestro del XII sec! Ma recenti indagini ci portano a considerare che forse qualcosa di vero c'era.
Se partiamo dal presupposto che il messaggio biblico ci viene da Dio, questo significa che deve avere delle valenze prima di tutto infinite e che noi con la nostra mente umana non riusciremo mai a penetrare completamente. Dovremmo quindi approfondire questa consapevolezza, che fino in fondo, nella Bibbia, non potremo mai arrivarci.
Il libro di Qohelet dice che l'uomo tende ad avere quello che non ha e ha una sete insaziabile. La nostra vita non è altro che una sete di saperne di più, di averne di più, che non sarà mai estinta. Non sarà mai possibile dimostrare che il testo biblico è di origine divina, perché se così fosse, la Bibbia  non sarebbe più divina. Se capissimo come funziona Dio, Lui non sarebbe più Dio. Pensate alla pericolosità di questi concetti, che ci portano molto lontano, soprattutto per voi cristiani, che credete in un Dio che si è fatto uomo.
Chi prescinde dall'origine divina del testo biblico, si avvicina ad esso puntando sugli aspetti tecnici.
Cerchiamo di capire come funziona la lingua ebraica, che è diversa dai linguaggi ai quali noi europei siamo abituati. E' difficilissimo tradurre il testo, perché applichiamo al testo delle chiavi di lettura che non sono originali. Facevo l'esempio delle prime parole della Bibbia: "Bereshìt barà Elohìm et hashamàim weet haaretz", che noi traduciamo: "In principio Dio creò il cielo e la terra", senza però sapere cosa significhi veramente. La traduzione non sta in piedi da nessun punto di vista. Cosa vuol dire che Dio in principio creò? Cosa vuol dire in principio e cosa vuol dire creò?



Bisogna tener conto della difficoltà a tradurre in un linguaggio nostro ciò che appartiene a una lingua molto diversa.
Vi ho dato solo delle banali notizie, ma ci sono delle parole che per noi sono difficilissime da capire senza travisarne il senso.
L'ebraico, in quanto lingua semitica, ha delle caratteristiche precise e comuni tra loro. Le lingue semitiche sono l'aramaico, il siriaco, l'ebraico, l'arabo antico e l'etiopico. Tutte queste lingue derivano, a loro volta, da un proto-semitico, cioè la lingua originale semitica, che costituisce la base dalla quale derivano tutte le altre. Ma del proto-semitico noi non sappiamo nulla, perché non abbiamo testimonianze scritte e non esiste più. Di più, il proto-semitico deriva da un proto-proto-semitico.
Io non so quando l'uomo ha cominciato a parlare, ma l'ebraico che possediamo adesso o le altre lingue semitiche risalgono diciamo a 5000 anni fa. E prima come si esprimeva la gente? Non esistendo una forma letteraria, l'uomo si esprimeva in una forma molto molto più semplice.
E prima ancora, al tempo dell'uomo delle caverne, delle palafitte? Presumibilmente l'uomo parlava con delle specie di grugniti, dei suoni, dei monosillabi, come i bambini, quando iniziano a parlare.
Parlo delle lingue semitiche, ma sicuramente lo stesso vale per le lingue indo-europee. Quindi si è partiti dai monosillabi, a suoni più semplici, che si sono via via evoluti, fino a suoni bisillabici e poi fino alle lingue proto-semitiche con suoni costituiti da tre lettere dell'alfabeto. Attenzione bene! Bisogna tener conto della grande differenza che c'è tra le lingue semitiche e quelle indo-europee. Innanzi tutto l'assenza quasi assoluta delle vocali nelle lingue semitiche. Se dico chavér, parola costituita da tre consonanti, trovate qualche nesso, se dico la parola machbéret? C'è un'analogia, se non teniamo conto delle vocali? Sì, le tre lettere centrali sono le stesse: la chet, la bet e la resh. Allora, chavér vuol dire amico, mentre machbéret vuol dire quaderno. Se hanno le stesse lettere, cosa c'entra il quaderno con l'amico?, viene da chiedersi. Il quaderno è un qualche cosa costituito da un insieme di pagine, così come l'amico è qualcuno con cui ho delle cose in comune, insieme.
Lo stesso vale per chibbùr, che è il tema, il componimento. E poi chevrà, che è la confraternita. Se studiate l'ebraico, dovete abituarvi a porre attenzione alle consonanti.
Un altro elemento proprio delle lingue semitiche è che si leggano da destra a sinistra e anche l'abbondanza dei suoni gutturali. Le gutturali, in ebraico sono: la alef, quella che noi diciamo essere senza suono; poi la he, che è una leggerissima h aspirata; poi la chet, che è un'aspirazione maggiore; poi la ayin, che noi non sappiamo pronunciare; finalmente la resh, che corrisponde alla nostra erre e che i semiti pronunciano come la erre francese.
Un altro elemento è la presenza di parole nella forma costrutto. Ogni parola ebraica, quasi tutte, possiamo trovarla nella forma assoluta. Facciamo alcuni esempi: adàm vuol dire uomo; sefer è libro; ish uomo, ecc. Ma ogni parola ha un'altra forma, con una leggerissima variante, che i grammatici chiamano il costrutto, in italiano e da questa variante capiamo che la parola che viene dopo, è un genitivo.
Tutte le parole che finiscono per a, in ebraico, per es. adamà, la terra, o torah, legge, dottrina o moràh, maestra, se si trasformano e finiscono in at, vuol dire che sono nella forma costrutta. Per es. torat Moshé vuol dire la legge di Mosè.
Ma l'ebraico, come l'abbiamo noi adesso, deriva da un proto-ebraico, che non abbiamo più.
Torniamo a chavér. Qualcuno sostiene che l'origine di questa parola sia l'evoluzione di una parola di due consonanti e cioè bar, figlio. Allora chavèr, che viene da bar, viene illuminato. C'è un'analogia tra il figlio e l'amico? Sì. Se c'è un amore particolare per il figlio, c'è anche per un amico.
La parola amèn, che noi ripetiamo molto spesso e che traduciamo malissimo, quando diciamo che vuol dire così sia, vuol dire, in realtà "è vero, è così", cioè qualcosa di certo. E quasi sicuramente questa parola deriva da em, che vuol due madre. Quindi amen viene ad esprimere qualcosa di sicuro, di certo, come è la madre nella vita di una persona, qualcuno di cui ci si può fidare totalmente.
Anche nell'ebraico, se noi prendiamo le parole che indicano i concetti più semplici, ci accorgiamo che queste parole sono quasi sempre dei monosillabi. Esh, fuoco; av, il padre; em la madre; yom il giorno; yam il mare; dag il pesce; rosh la testa.
I semiti esprimevano le cose più semplici che avevano sempre sottomano con dei monosillabi. Pensate, per fare ancora qualche esempio: or, luce; pe bocca; sus cavallo.
Lo stesso vale per la parola cuore, lev. Che, però in ebraico, indica non i sentimenti, ma la razionalità, l'intelletto, la capacità di scegliere. La sede dei sentimenti, infatti, sono gli intestini, le viscere.
Da queste parole di due monosillabi si sono poi sviluppate parole formate da tre radicali. Partiamo da or e arriviamo ad arur: una alef e due resh, che vuol dire maledizione. Ma cosa c'entra la luce con la maledizione. Eppure succede anche che nelle lingue semitiche ci sono due radici uguali, che però vogliono dire due cose contrarie.
Pensate a qodesh, santità, qualcosa di sacro. Ma in certe occasioni vuol dire profano.
Qualche volta troviamo l'espressione "colui che vede tanto", usata per dire cieco, come per non voler evocare la situazione della cecità, perché sarebbe come evocare una maledizione su se stessi. E perciò si dice il contrario, come in senso augurale. Oppure si vuole dire che il cieco ha delle sensibilità in più rispetto agli altri.
C'è una radice ebraica molto strana, la radice ra', formata da una resh e una ayin. Ra' vuol dire male, cattivo, calamità o anche compagno, un po' come compagno, così come compare in quel famoso passo: "Ama il prossimo tuo come te stesso". E' quella contraddizione di cui vi parlavo prima.
Analogamente la parola roe', che viene dalla stessa radice, vuol dire pastore. Ma qual è il nesso tra amico, male, pastore? In una società pastorizia il pastore è l'amico; ma in una società agricola il pastore è il nemico.
Vedete come da una stessa radice derivano significati diversi?
Se a questa radice aggiungo una bet, abbiamo ra'av, fame; qui troviamo il nesso col male. Se poi aggiungiamo una shin, abbiamo ra'ash, che vuol dire chiasso, in senso negativo. Poi ra'al che vuol dire veleno; ra'am è tuono; ra'ad vuol dire terremoto.
Vedete quanto si allarga il concetto, a partire dalla radice col significato male?
Sta capitando adesso un fenomeno che sia nell'ebraico che nelle altre lingue semitiche, si stanno sviluppando radici con quattro lettere, perché tre sole lettere non sono più sufficienti ad esprimere tutti i concetti della vita di oggi.
I nostri progenitori riuscivano ad esprimersi con monosillabi o bisillabi, ma adesso non sono più sufficienti nemmeno le parole a tre lettere e se ne usano quattro. E queste parole nuove, queste radici di quattro lettere sono costituite completamente ex novo, oppure vengono da altre lingue, oppure sono costituite dalla ripetizione di due più due. Faccio un esempio: qal vuol dire leggero e qalqel vuol dire dare poca considerazione a una persona, non stimare. Poi c'è la parola kol, tutto da cui si forma kalkel, cioè dare da mangiare, fornire una persona di tutto il necessario. Da qui la parola moderna kalkalà, economia.
Ci sono poi delle radici onomatopeiche, come dagden, fare il solletico. Poi daq, sottile da cui viene diqduq, che è la grammatica, cioè sottilizzare sulla lingua.
Un altro elemento caratteristico dell'ebraico biblico è che le forme dei verbi sono ballerine. Noi diamo dei nomi: presente, passato e futuro, perché abbiamo questo tipo di concezione. Ma nell'ebraico biblico non c'è il nostro presente, ma c'è il participio presente, per dire che sto facendo un'azione che sta ancora durando nel tempo. Il cosiddetto passato, invece, vuole esprimere qualcosa di sicuro; per dire a una persona che la amiamo, non dobbiamo dire "ti amo", ma devo adoperare il passato: "io ti amai", per dire che il mio amore è qualcosa di sicuro e certo. Quello che noi chiamiamo futuro indica un'azione continuata nel tempo e comunque che ha una certa forma di incertezza: "Ti amerò" vuol dire che provo un sentimento importante, ma non so se durerà nel tempo.
Come quando leggiamo "In principio Dio creò" e troviamo barà, al passato, non vuol dire che Dio ha creato, ma affermo che Dio veramente ha creato, è cosa certa, assoluta, senza discussione. Non è un'azione passata, ma un'azione sicura.
Un altro elemento è la forma del plurale, perché le lingue semitiche hanno una forma di plurale strano, che si chiama duale e che si presenta con un suffisso particolare: aim, che indica qualcosa che va in coppia. Se dico 'enaim, vuol dire gli occhi; se dico shinaim, significa i denti (intendendo le due file, le due arcate di denti). Se dico yom, vuol dire giorno; se dico yammìm, diventa giorni, ma se dico yomaim, allora vuol dire due giorni.
La parola acqua si dice maim, in forma duale. E perché? Il semita primordiale, l'uomo delle palafitte, quando pensava all'acqua, pensava a due tipi di acqua: quella sulla terra e quella in cielo, l'acqua superiore. L'acqua superiore, nella concezione antica, era trattenuta da una specie di lenzuolo di plastica e quando doveva piovere era o la divinità, cioè Dio o una delle divinità pagane, apriva questa separazione e permetteva all'acqua di scendere.
La stessa cosa riguarda la parola cielo, shamaim, che in realtà voleva indicare una sintesi tra sham e maim, cioè là c'è l'acqua, il cielo come deposito dell'acqua.


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