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La veste nella tradizione ebraica
(Rav Luciano Meir Caro)
Parlare dell'abito nella Bibbia ebraica potrebbe sembrare un argomento futile, ma in realtà di futile non c'è nulla, quando si parla del testo sacro, che è sempre pieno di provocazioni e sollecitazioni ad approfondire determinati argomenti.
Intanto la prima cosa da dire è che l'abito è stato inventato dal Signore Iddio, nel senso che l'essere umano è l'unico vivente dotato di un vestito. L'uomo ha prodotto una quantità di invenzioni dal punto di vista tecnico, scientifico, medico, ecc., ma per quanto riguarda il vestito, pare che la cosa sia partita da Dio stesso.
E' famoso l'episodio di Adamo ed Eva nel paradiso terrestre, dove si dice che tutti e due erano nudi e non se ne vergognavano; solo dopo aver disobbedito al comando di Dio è subentrata la vergogna della loro nudità. E' interessantissimo notare il gioco di parole che ci offre il testo sacro, proponendoci i termini arum MiWr[],,, che vuol dire 'nudo' e allo stesso tempo 'scaltro'. Io non so quale sia il nesso tra le due parole, ma il testo biblico ci provoca fortemente. Al cap. 2 della Genesi ci viene raccontato che Dio aveva presentato all'uomo tutti gli animali e poi la donna, che egli trovò simile a sé, osso delle sue ossa, capace di stargli davanti; per questo egli abbandonerà il padre e la madre, per unirsi alla sua donna e diventare con lei un'unica carne. Infine il testo dice: "Erano tutti e due nudi, Adamo e sua moglie e non si vergognavano" (Gen 2, 25). Almeno noi traduciamo così, ma non so se voglia dire proprio così.
Subito dopo, il cap. 3 continua dicendo: "E il serpente era la più astuta di tutte le bestie", dove viene usato lo stesso termine, che significa 'nudo'; quindi il testo sacro stabilisce un nesso tra la scaltrezza del serpente e la nudità dell'uomo. Infatti, dopo aver creduto alla parola del serpente e aver mangiato del frutto dell'albero della vita, l'uomo e la donna si accorgono di essere nudi e staccano la foglia dal fico e con essa si coprono. Il testo continua narrando della punizione che Dio infligge all'uomo, a sua moglie e al serpente; poi il capitolo termina al v. 21 dicendo che il Signore Dio fece per Adàm e sua moglie delle tuniche di pelle e li rivestì.
Vorrei che imparaste a leggere tra le righe del testo, intuendo quello che non dice e facendo comunque attenzione a quelle cose che dice e che a noi sembrano ovvie, ma ovvie, evidentemente, non sono.
Il testo sottolinea, qui, che Dio non solo confeziona queste tuniche, ma anche li riveste Lui stesso, gliele mette addosso.
Non dimenticate la provocazione; quando leggete un passo, dovrebbe ricordarvi qualcosa di analogo. In questo caso, vi ricordate qualche passo biblico in cui c'è qualcuno che riveste un altro? Per es. Giacobbe riveste Giuseppe con una tunica dalle lunghe maniche; ma ce ne sono altri.
Non possiamo fare un excursus completo di tutte le volte che nella Bibbia si parla di abito. Ma questo episodio di Giuseppe è emblematico e importante, perciò possiamo spendere qualche parola.
Sappiamo come egli sia particolare, come faccia di tutto per rendersi odioso e antipatico ai fratelli, specialmente con i suoi sogni che lo vedono sempre protagonista e migliore di tutti. Ma il padre Giacobbe lo predilige e per dimostrare il suo amore, gli cuce una tunica particolare - ketònet passim. (Gen 37, 3). Questo termine si trova solo qui e non sappiamo in realtà cosa voglia dire; qualcuno traduce 'tunica a strisce', qualcun altro 'tunica con le maniche', oppure 'tunica colorata'. Insomma è una specie di divisa, un vestito che rende Giuseppe riconoscibile, anche da lontano. Ma io ripeto che non so di preciso cosa voglia dire questa espressione; so solo che passìm sembra un plurale.
Comunque sia, questo abito suscitava l'invidia dei fratelli, tanto che poi ci sono delle ripercussioni enormi per tutta la storia di Israele. Sappiamo come sono andate le cose. I fratelli di Giuseppe sono al pascolo e il padre lo manda da loro; i maestri dicono che Giuseppe fosse rimasto a casa perché era il suo turno di rimanere ad accudire il padre. Lungo il cammino, Giuseppe fatica a trovare i fratelli; ad un certo punto il testo dice che "un tale lo trovò" e gli chiese cosa stesse cercando e lui dice: "Sto cercando i miei fratelli" (Gen 37, 16). Frase bellissima, che forse vuol dire qualcosa in più del semplice significato superficiale. E il tale gli risponde: "Son partiti di qua, però ho sentito che si dirigevano a pascolare verso una località che si chiama Dotàn". Secondo qualcuno, dietro questa frase, c'era una risposta per Giuseppe, era già adombrato quello che stava per succedere. Come se gli stessero dicendo: Tu stai cercando dei fratelli, ma loro da questo concetto sono lontani; tu cerchi la fratellanza, ma a loro non interessa, non troverai dei fratelli.
Giuseppe, seguendo le indicazioni di questo tale, li raggiunge, ma prima che lui arrivi, loro lo riconoscono da lontano, proprio grazie a quel suo vestito particolare, che lo faceva distinguere da lontano. Se fosse stato vestito come tutti, se lo sarebbero trovato davanti all'improvviso; mentre così hanno avuto il tempo per escogitare il piano contro di lui. Dapprima decidono di ammazzarlo, poi, sotto consiglio di Ruben, optano per un'altra soluzione: lo spogliano della tunica e lo buttano in una buca. Probabilmente il piano era di lasciarlo morire lì. Addirittura si mettono a mangiare accanto alla buca. Nel frattempo passa una carovana e lo vendono.
Mi soffermo su questo episodio perché qualcuno dice che passìm non è un termine che indica come era confezionata la tunica, ma significa altro. Tenendo conto delle lettere da cui è costituito - pe, samech, yud e lamed - si può intuire cosa gli sarebbe successo in seguito, perché sono le iniziali di parole molto significative a questo riguardo. Ad es. la pe indica Potifàr - il funzionario egiziano che l'ha comprato come schiavo; la samech richiama i mercanti - socharìm - che sono passati di lì e l'hanno comprato; la yud invece indica la provenienza di quei mercanti, che sono detti Ismaeliti - infine la mem fa riferimento ai Madianiti ; infatti il testo è un po' ambiguo, perché parla di una carovana di mercanti Ismaeliti, ma poi dice che sono Madianiti. Probabilmente Giuseppe è stato venduto più volte.
Ma il racconto non finisce qui, perché i fratelli, che l'hanno venduto, ammazzano un capretto e col sangue della bestia sporcano la famosa tunica e la mandano al padre, col messaggio: "Abbiamo trovato questa tunica; verifica tu se è di tuo figlio o no" (Gen 37, 32). Parole terribili!
Ma in fondo in fondo, quello che succede nella famiglia dei patriarchi, succede anche nelle nostre famiglie; a volte le piccole sciocchezze precipitano e diventano tragedie, ma ognuno pagherà per quello che ha fatto.
Dietro tutto questo, però, c'è la regia di Dio, che voleva che gli Ebrei fossero schiavi in Egitto e ne venissero liberati. I nostri maestri, che sono severissimi, dicono che quando noi ci domandiamo: "Ma perché il Signore Dio ha consentito tante sofferenze che sono capitate al nostro popolo?", tante volte la risposta è che stiamo pagando il fio di quanto è successo in tempi lontani. C'è stata una situazione in cui noi abbiamo venduto un fratello; tutto questo faceva parte del piano di Dio, ma chi l'ha fatto non sapeva questo e ha agito per cattiveria o ingenuità. Questa è la nostra stessa situazione: facciamo parte di un piano di Dio, ma tutti paghiamo per quello che abbiamo fatto. Giuseppe si dava un sacco di arie, era il cocco di papà, aveva la veste bella, ma poi si ritrova ad essere venduto e rivenduto; quindi sta pagando. I fratelli, a loro volta, pagheranno per la loro colpa.
Comunque i fratelli mandano il vestito al padre e lui lo riconosce e dice: "E' proprio la tunica di mio figlio; una bestia feroce lo ha divorato". Non sappiamo se questa frase vuole esprimere una tragedia avvenuta, o se sottintende qualcos'altro, cioè che la bestia feroce è l'odio dei fratelli.
Oppure un'altra interpretazione dice che il riferimento era alla moglie di Potifàr, che voleva sedurre Giuseppe, ma vedendo che lui non cedeva, l'ha accusato falsamente e l'ha fatto mettere in prigione. Il testo racconta che Giuseppe era diventato il maggiordomo di fiducia di questo Potifàr, tanto da essere come un padrone in casa sua; ma la moglie si innamora di lui, alza gli occhi su Giuseppe e senza pudore arriva a dirgli: "Giaci con me" (Gen 39, 7). Notate: la moglie del ministro del faraone si innamora di uno schiavo straniero, che lei considera come un oggetto suo e lo vuole per sé. Anche questa faccenda è piena di provocazioni, se state bene attenti al testo; infatti ci è detto che in quella casa Giuseppe era diventato il padrone assoluto, tanto che il signore non gli controllava niente. A un certo punto il testo dice: "E Giuseppe era bello d'aspetto e bello da vedersi" (Gen 39, 6). E noi, stupiti, diciamo: Cosa ce ne importa? E' successo di tutto: litigi in casa, gelosia, odio, finché è stato venduto e rivenduto, comprato da un funzionario egiziano e lì avrà certamente fatto la gavetta come schiavo; sicuramente sarà passato del tempo prima che Giuseppe arrivasse a quella posizione privilegiata. E adesso il testo dice che era bello. Nella riga successiva la moglie di Potifar lo vuol costringere a giacere con lei e sapete come è andata a finire: Giuseppe è sbattuto in prigione. Ma attenzione! Nel momento in cui la donna cerca di nuovo di sedurlo e lui continua a rifiutarla, per sfuggirle, Giuseppe le lascia il suo vestito in mano. Ecco di nuovo l'elemento dell'abito, della veste.
Ma vorrei tornare un istante indietro, al punto in cui il testo dice che Giuseppe era bello. I nostri maestri leggono in maniera molto umana e dicono che quando Giuseppe divenne il padrone assoluto in quella casa, passava il suo tempo libero a farsi bello, lui, sempre tutto pieno di sé. Ma possibile che Giuseppe non pensasse a suo padre, rimasto a casa nel lutto? Se era padrone in quella casa, non poteva tornare da suo padre, o quanto meno non poteva mandare un servo ad avvisare suo padre che lui stava bene? Invece lui pensa a farsi bello. Quindi la disgrazia accaduta in seguito, cioè la molestia della moglie del padrone e la conseguente prigionia, sono la punizione che Giuseppe subisce per non essersi dato pensiero di suo padre. E, guarda caso, lo strumento della vendetta è proprio il vestito, che diventa prova della colpevolezza di Giuseppe.
Tutta la storia di Giuseppe, del suo incontro coi fratelli, il loro inganno, la sua vendita ai mercanti, il suo arrivo in Egitto e la vicenda in casa del funzionario del faraone, è interrotta da un episodio che sembra veramente fuori luogo: la storia di Yehudà-Giuda e di Tamàr (Gen 38). Yehudà era uno dei fratelli che avevano partecipato alla combutta contro Giuseppe e vediamo, nel testo biblico, che anche lui sta pagando per l'errore fatto. Cosa è successo? Giuda aveva sposato una Cananea, dalla quale aveva avuto tre figli: Er, Onàn e Shelà; il primo di questi figli sposa a sua volta una Cananea chiamata Tamàr, ma, essendo cattivo agli occhi di Dio, muore. Secondo la prassi del tempo, la vedova doveva sposare un fratello del defunto e così avviene: Tamàr sposa Onàn. Lo scopo di questi matrimoni in famiglia era di dare una discendenza al morto, perché nessuno dovrebbe morire senza lasciare un erede. Ma Onàn anch'egli empio, sapendo che il primogenito non sarebbe stato considerato suo figlio, ma figlio di suo fratello, si rifiutava di fecondare Tamàr: la Scrittura dice che egli disperdeva per terra. Per questo Dio lo fa morire. Perciò Tamàr aspetta che le venga dato il terzo figlio, ma Giuda trova la scusa che Shelà è ancora troppo giovane, perché aveva paura che lei gli facesse morire anche quell'ultimo figlio. Perciò la invita a tornare a casa sua, promettendole di chiamarla al momento opportuno. Ma il tempo passa e Tamàr si accorge di essere stata ingannata. Allora, sapendo che Giuda doveva passare nei pressi della città dove lei abitava per la tosatura del gregge, si traveste da prostituta, coprendosi il capo; questo infatti era il segno caratteristico delle prostitute di allora. Tamàr si mette in un crocicchio e arriva Giuda; si mettono d'accordo per il compenso e mentre lui le offre un capretto, lei chiede anche una garanzia: il sigillo di Giuda, cioè quell'oggetto particolare, magari un anello, con un segno distintivo della persona; i tefillìm, cioè quei filamenti che tutti avevano e che a seconda del colore e della lunghezza, davano la possibilità di riconoscere a chi appartenevano, che professione faceva, quanti anni aveva, insomma, una specie di carta di identità della persona; e infine chiede il bastone, un altro elemento personalizzato.
Ma quando Giuda manda il suo amico a pagare la prostituta col capretto che le aveva promesso, questi torna dicendo che non c'è mai stata una prostituta in quel luogo e Giuda, con leggerezza, dice: "Se li tenga!". Ma dopo tre mesi viene data la notizia a Giuda che sua nuora è incinta e lui dà subito ordine di bruciarla; ma Tamàr manda a Giuda i tre segni che le aveva lasciati, chiedendogli se li riconosce. Lui finalmente capisce e afferma: "Lei è più giusta di me".
Da Tamàr nascono due gemelli: Perez e Zerach. E' curiosa anche la vicenda di questo parto: infatti al momento di nascere uno dei due bimbi mette fuori una mano e la levatrice gli lega un cordoncino rosso al polso, per riconoscere il primogenito, ma poi questi ritira la mano ed esce prima suo fratello. A dire che la primogenitura vera non è quella fisica, ma quella morale.
Al di là di questo, notiamo la presenza del nastrino rosso: ancora una volta compare un indumento, anche se molto ridotto.
Poi è importante ricordare che uno dei due gemelli, nati dall'unione di Giuda con Tamàr, Perez sarà un progenitore di Davide, attraverso il matrimonio con Rut. E Davide è il grande Re progenitore del Messia. Dunque vediamo come sia strano questo Messia - che sia già venuto come credono i cristiani, o che debba ancora venire, come crediamo noi Ebrei - Un Messia che porta scritto nel suo albero genealogico addirittura un incesto e che nasce da una famiglia veramente sconquassata. E' molto importante questo elemento, perché una persona non dovrebbe mai venir giudicata per la famiglia che ha alle spalle, per come fosse suo padre o sua madre o suo nonno; bisogna guardare a quello che è lui e basta.
Ma andiamo ancora avanti sul tema dell'abito. Dal punto di vista della nostra normativa è proibito indossare un abito confezionato da una stoffa che contenga intrecciati lana e lino (Dt 22, 11). Posso mettere una camicia di lino e un golf di lana, ma non posso avere un capo di vestiario fatto di entrambi gli elementi insieme. Non sappiamo perché, ma è così.Un'altra disposizione è quella dei fiocchetti che mettiamo agli angoli del nostro manto di preghiera, il tallìt, che avrebbero la funzione di ricordarci il nome di Dio; questa norma ha origine da un passo del libro del Deuteronomio, che dice: "Ai quattro angoli del vostro vestito mettete dei fili intrecciati" (Dt 22, 12). E' un po' il discorso dei tefillìm, che abbiamo incontrato nella vicenda di Giuda; ma questi fiocchi, detti tzitzìt, sono uguali per tutti e hanno lo scopo di ricordarci che esiste il Padre eterno, che ci ha dato i precetti.
Un'ultima cosa vorrei dirvi. Nel libro dell'Esodo, dove si parla della costruzione del tabernacolo, c'è una lunghissima descrizione degli abiti che doveva indossare il sacerdote. Senza entrare nei particolari, sembra che il sacerdote chiamato a celebrare il culto divino, doveva indossare almeno quattro abiti speciali. Invece, se si trattava del culto del giorno di Kippùr, gli abiti dovevano essere sette e tutti bianchi. Non si capiscono tutti i particolari, ma di sicuro questi abiti dovevano essere confezionati appositamente, quindi fatti in un certo modo e il sarto incaricato di ciò, doveva esserne ben consapevole. Non solo, ma l'abito era un elemento fondamentale per le celebrazioni del culto: un sacerdote che avesse celebrato senza indossare gli abiti caratteristici, era passibile di morte.
Il testo sembra in contraddizione, perché dice: "Farai questi abiti per onore e bellezza" (Es 28, 2); come se l'abito fosse una specie di seconda pelle dell'uomo, capace di dare connotazione precisa alle funzioni che egli svolge.
Il testo dice ancora, rivolgendosi a Mosè: "Quando avrai fatto questi abiti per il culto, li farai indossare ad Aronne tuo fratello che è sacerdote e ai suoi figli" (Es 28, 41). Vi ricordate Dio, al principio, che confeziona gli abiti e li fa indossare ad Adamo e a sua moglie? Così come tutta la congerie delle disposizioni per la costruzione del tabernacolo dovrebbe ricordare la creazione del mondo, allo stesso modo in cui Dio ha rivestito l'uomo, Mosè deve rivestire i sacerdoti. Quasi che l'uomo, rivestito da Dio, debba svolgere delle funzioni sacerdotali, di insegnamento, all'interno dell'universo, nell'umanità. Habitus, infatti, nelle nostre lingue, vuol dire anche comportamento.
A cosa servivano questi abiti dei sacerdoti? Qualcuno dice, con una provocazione, che come il culto sacrificale ha come scopo il dimostrare il nostro attaccamento a Dio e di chiedergli perdono, allo stesso modo, anche gli abiti hanno la stessa funzione. La tunica del sacerdote, per es., è uno sbarramento contro l'omicidio (ricordate l'episodio di Giuseppe), come se il sacerdote invitasse, con essa, a star lontano da ogni forma di versamento del sangue. Ancora: i pantaloni sono una difesa contro i peccati di origine sessuale, perché coprono certe parti del corpo. Coperte non per nasconderle, perché sono vergognose, ma coperte nel senso di disciplinate. Oppure il turbante che il sacerdote aveva in testa è un antidoto contro la vanità; in fondo è solo uno straccio che uno ha in testa e non c'è da farsi grandi, perché uno ha il cappello da poliziotto, o la zucchetto da papa, o altro. Il pettorale è un antidoto contro i pensieri cattivi: quella cosa che sta sul petto dovrebbe fare da freno ai pensieri cattivi che scaturiscono dal cuore. La cintura è un antidoto contro il pervertimento della giustizia. Non è facile capire cosa centri la cintura con la giustizia. Ma bisogna tener presente che si tratta di cinture alle quali erano legate due piastre, i famosi urìm e tummìm, strumenti usati per interrogare la volontà di Dio, in casi importanti, che riguardavano tutto il popolo. Poi c'era una specie di camicia che ricopriva il tutto e questa è un antidoto contro la maldicenza; come fosse l'invito a rivestirsi di qualcosa che tenga a freno la voglia di parlar male degli altri, uno sport, peraltro, nel quale siamo tutti molto bravi e appassionati.
Ma dobbiamo tener conto che quello che sappiamo è sempre poco e quindi dobbiamo sempre continuare a cercare.