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Dante nell'ebraismo
"Hoj 'or shaddài..." (O isplendor di Dio... Par. XXX, 97): alcuni critici si sono chiesti se la traduzione in ebraico del poema dantesco, di cui esistono alcune versioni, possa avere una qualche utilità, o se non sia addirittura una profanazione della lingua sacra giudaica, dal momento che il contenuto del poema di Dante è in contrasto con le convinzioni religiose degli ebrei; eppure nell'attuale fase di espansione della cultura tra tutti i popoli della terra, la conoscenza di Dante si va diffondendo nel mondo, perché i nuovi ambienti culturali non vogliono essere esclusi dalla partecipazione ai tesori di altre culture, anche molto diverse dalla propria. È per questo che, nello sviluppo di orizzonti della cultura ebraico-israeliana, Dante ha un posto notevolissimo.
Del resto se per gli ebrei c'è un contrasto fra i contenuti religiosi propri e quelli cristiani, per Dante esiste addirittura un abisso fra il suo cristianesimo e le visioni pagane del patrimonio classico. Eppure l'autore della Divina Commedia, prendendo a guida del suo "viaggio" Virgilio, mostra di accogliere la sublime poesia del mondo religioso e mitologico della classicità con amore e venerazione, in quanto patrimonio comune della civiltà, che attesta l'universalità della coscienza umana e della ricerca del vero. Non diversamente la spiritualità di Dante, espressa nella grande poesia della Commedia, può diventare patrimonio comune anche di altre culture. Lo dimostra il fatto che l'interesse per Dante, sempre esistito fra gli studiosi ebrei, si è rafforzato nell'ultimo secolo. Ma questo interesse esiste anche in moltissime altre culture: basti pensare che una traduzione della Divina Commedia è stata recentemente effettuata anche in malayalam, una delle tante lingue dell'India.
La presenza di Dante in altre culture, l'interesse che incontra la Divina Commedia nel mondo, è il tema del "Settembre Dantesco 2006", rassegna di celebrazioni e letture di Dante che viene organizzata ogni anno a Ravenna. Dopo la conversazione sulla presenza di Dante in India e in Slovenia, con lettura di canti della Commedia nelle rispettive lingue, è stata la volta della conversazione sulla presenza di Dante in Israele, che si è tenuta giovedì 28 settembre in San Francesco. Dice una tradizione che in questa basilica Dante venisse a pregare, e la sua tomba sorge proprio nel piccolo giardino adiacente .
Alla conversazione, condotta da Piero Stefani, hanno partecipato Ariel Rathaus, italianista dell'Università Ebraica di Gerusalemme, traduttore di poeti israeliani in italiano e di opere della letteratura italiana in ebraico; e Michela Andreatta, ebraista presso il Dipartimento di Orientalistica dell'Università di Torino: è di imminente pubblicazione un suo saggio sulla poesia religiosa ebraica di epoca barocca.
Dalla dotta conversazione fra questi eminenti studiosi è emerso che Dante, anche se non conosceva l'ebraico, era consapevole della straordinaria importanza di questa lingua. Infatti non solo il mondo biblico è una delle fonti della Divina Commedia, ma tutta la teorizzazione dantesca sul problema della lingua, nel De Vulgari Eloquentia, ha inizio proprio con l'ebraico. Dante vede in esso la lingua originaria in cui Dio e l'uomo si sono parlati, la lingua primigenia, che non si è corrotta in seguito all'episodio della torre di Babele, affinché il Redentore potesse crescere nella lingua della grazia e non nella confusione delle lingue. Ma poi il pensiero di Dante ha subito un'evoluzione, infatti nel canto XXVI del Paradiso, versi 124-126, Adamo stesso, parlando a Dante, dice: "La lingua ch'io parlai fu tutta spenta / innanzi che all'ovra inconsummabile / fosse la gente di Nembròt attenta...". Dunque l'ebraico non è più quello in cui Dio parlò nell'Eden, da quando "la gente di Nembrot", cioè la popolazione di Babilonia, si dedicò alla costruzione della torre che fu impossibile portare a compimento. E, continua il canto XXVI, perfino il nome di Dio, che nella lingua primigenia era I , più tardi cambiò e divenne El. A proposito di questo, Umberto Eco ha suggerito l'ipotesi che Dante abbia subito l'influenza di studiosi ebrei suoi contemporanei, come Immanuel Giudeo, dal momento che in certi testi ebraici antichi il tetragramma è abbreviato in iod-he o semplicemente iod. Comunque sia, quello dell'ebraico è un problema fondamentale per Dante, collegato com'è alla sua speculazione sulle origini della lingua.
Certamente Dante ebbe stretti rapporti con la cultura ebraica del suo tempo ed ebbe fra gli ebrei molti estimatori e molti imitatori. Ariel Rathaus è del parere che Immanuel Romano (o Immanuel Giudeo) abbia avuto nell'ebraismo un ruolo paragonabile a quello avuto da Dante nel cristianesimo. Fu infatti commentatore della Bibbia e suggestivo poeta, fu in contatto con molti letterati italiani, con cui ebbe anche scambi di sonetti. Non è da escludere che sia nata un'amicizia fra lui e Dante, anche se non abbiamo documenti che ce lo provino. Anche Immanuel Romano racconta un viaggio nell'aldilà, che, benché in prosa, ha molte analogie col contenuto del poema dantesco. In questo viaggio Immanuel sceglie come guida un personaggio di nome Daniele, in cui alcuni hanno voluto vedere la raffigurazione di Dante stesso. Aggrappato al suo mantello vola nel mondo dei morti, nell'Inferno assiste a truculenti supplizi di dannati; nel Paradiso, che ricorda molto da vicino quello dantesco per la luce soffusa e i diversi gradi di perfettibilità, incontra e parla con molti beati, fra cui sua madre, il suo maestro, il re Davide e Mosé, da cui riceve l'assicurazione che si salverà in virtù del suo commento della Bibbia. Quest'opera è datata 1328, cioè pochi anni dopo la morte di Dante.
La difficoltà teologica a recepire Dante nella cultura ebraica, ha spiegato Michela Andreatta, è superata dagli ebrei del tempo di Dante, in quanto essi vedono nelle dottrine scolastiche del '200 il punto più alto della teologia e della filosofia. È stata ravvisata una coincidenza fra alcune particolarità del pensiero di Dante e quello, contemporaneo, di un gruppo di filosofi ebrei romani da poco studiati. Uno di essi, Giuda Romano, compilò una silloge dei testi scolastici più rappresentativi, tradotti in ebraico, fra cui introdusse molti scritti di Tommaso d'Aquino, e anche quattro brani della Divina Commedia. Nei circoli filosofici ebraici Dante era considerato un'autorità dottrinaria, e veniva citato in tutti i dibattiti. Si può affermare che in quei cenacoli le due culture, cristiana ed ebraica, si sono incontrate senza alcuna crisi. In questo incontro di pensiero ha radice la favorevole disposizione degli ebrei di fronte alla Divina Commedia, tanto che imitazioni di essa si sono avute ancora nei secoli successivi, fino al '600. La più nota è quella del rabbino Mosè Daniel, del 1414: in essa si immagina un Paradiso filosofico, che si ispira al Paradiso dantesco non solo a livello tematico, ma anche a livello formale: infatti l'autore introduce nell'ebraico la terzina dantesca, come Immanuel Romano vi aveva introdotto il sonetto.
Alla fine del '600 compare poi un' imitazione dell'Inferno dantesco di Mosè Zakkut, che si avvale di effetti barocchi e cruenti. Nel '700 un allievo di Mosè Zakkut scrisse il seguito dell'opera: "Il Paradiso Preparato", che prospetta il destino dell'anima beata nella vita a venire.
Ma bisogna arrivare all'Ottocento per assistere alla riscoperta di Dante, per merito di Giambattista Vico. È del 1865 un sonetto di Samuele Davide Luzzatto, letterato ebreo, in cui si afferma che Dante ha spiegato le ali quando è andato in esilio, e questo esilio è stato per Dante ciò che la diaspora è stata per il popolo ebraico. Luzzatto inoltre esalta il forte senso della giustizia di Dante, quale appare nella Divina Commedia.
Sempre nell'Ottocento compaiono le prime traduzioni in ebraico della Commedia, dapprima solo parziali. Verso il 1890 fu pubblicata una traduzione in ebraico di tutto l'Inferno, ad opera di un rabbino di Trieste, Saul Formiggini. Egli tradusse poi anche le altre due cantiche, ma senza pubblicarle, forse perché la pubblicazione della prima aveva dato origine a forti riserve circa la sua opportunità (cui accenno all'inizio) e anche sulla correttezza dell'ebraico usato dal traduttore. Col passar del tempo si persero le tracce del seguito dell'opera. Fu solo in seguito alla recente donazione di una serie di antichi manoscritti al Museo Civico di Trieste da parte di Salvatore Sabbadini, e alla loro catalogazione ad opera di Michela Andreatta, che le traduzioni perdute sono ritornate alla luce e la professoressa Andreatta spera di poterne presto curare la pubblicazione.
Piero Stefani ha poi presentato la traduzione più recente, quella di Immanuel Olsvanger, edita a Gerusalemme fra il 1944 e il 1957. Olsvanger (morto nel 1961) conosceva molto bene Dante, essendo un italianista con interessi orientalistici e molto attratto da esperimenti linguistici, quali l'uso dell'esperanto, la traslitterazione dell'jiddish in caratteri latini, la traduzione in ebraico di testi sanscriti e giapponesi. L'ebraico che usa per la traduzione dell'opera di Dante è medioevale, per cui il lettore israeliano odierno incontra difficoltà nella sua lettura; un'altra curiosità è l'aramaico che Olsvanger usa per tradurre il discorso del trovatore Arnaldo Daniello, nel canto XXVI del Purgatorio, cercando di rendere la differenza fra italiano e provenzale con quella fra ebraico e aramaico. Ma, al di là di questa estrema versatilità del traduttore, si può notare che un punto d'incontro importante fra l'italiano e l'ebraico è l'uso dell'endecasillabo, entrato nella cultura ebraica molto presto, ai tempi di Dante.
Dopo queste erudite disquisizioni, l'atmosfera si è un po' rilassata quando, per richiesta di Piero Stefani, si è passati a scoprire l'influenza di Dante sulla cultura ebraica contemporanea. Rathaus ha sostenuto che molti poeti israeliani contemporanei impegnati si ricollegano al Dante politico, usando come lui l'invettiva. Inoltre l'Inferno dantesco viene usato come metafora della Shoah, per rafforzare l'immagine dei Lager e dei loro orrori. È stato citato il libro di Primo Levi "Sommersi e salvati", che già nel titolo ricorda la situazione dei dannati di certe bolge infernali, la cui pena è quella di essere sommersi nello sterco o nella pece bollente; e soprattutto si è parlato del capitolo dell'opera "Se questo è un uomo" , in cui l'autore evoca l'ansia di ricordare e di spiegare a un suo compagno di prigionia i versi del Canto di Ulisse ("...prima che sia troppo tardi, domani lui o io possiamo essere morti..."), mentre, nell'inferno di Auschwitz, è in fila per ricevere la misera zuppa degli Häftling; un modo per conservare la propria umanità in un luogo destinato ad annientarla.
Il momento più atteso, e applaudito, è arrivato quando l'attore Raoul Grassilli ha letto il canto XXX del Paradiso, interpretando in modo stupito e commosso l'infinità delle sue visioni di luce. Di seguito Ariel Rathaus ha fornito la lettura dello stesso canto nella versione ebraica di Immanuel Olsvanger, lettura incomprensibile ai più, ma suggestiva per il suono evocante la lingua primigenia in cui, secondo Dante, "per la prima volta il cielo parlò alla terra" (G.Rinaldi).
Tutti i partecipanti alla conversazione hanno ricevuto un premio, l'Alloro dantesco, come segno di gratitudine della città di Ravenna.
Concludendo questa interessantissima conversazione, Piero Stefani ha osservato che, nella cultura ebraica, un arco congiunge il Trecento ai giorni nostri, nel nome di Dante. E si è augurato che Dante possa essere letto oggi a Gerusalemme in segno di pace.
Giovanna Fuschini