Menu principale:
1a GIORNATA DEL DIALOGO EBRAICO CRISTIANO A BOLOGNA
Il 17 gennaio 2016, a Bologna, presso il Villaggio del fanciullo dei padri dehoniani, è stata celebrata la Giornata di approfondimento del dialogo ebraico cristiano. Non è esagerato esaltarne la portata di tale evento, in quanto è avvenuto per la prima volta nella Diocesi di Bologna. La Giornata è stata organizzata dall’Aec di Bologna con il beneplacito dell’arcivescovo Matteo Maria Zuppi unitamente al rabbino capo Alberto Sermoneta.
All’indomani la stampa e la televisione non hanno fatto alcuna menzione di tale evento se si esclude il trafiletto apparso sul Resto del Carlino il 18 gennaio 2016 che ha esaltato i soli motti di spirito dell’arcivescovo Zuppi.
Invece, questo articolo, per amore della verità, vorrebbe riportare nella giusta collocazione un fatto storico. Non è solo una questione di giustizia, ma anche una questione di valori culturali propri della società in cui la storia delle persone viene proposta come tema di riflessione pubblica nel tempo. Chi scrive non è un giornalista professionista, ma vuole ricordare a coloro che sono tali che il linguaggio è veicolo e strumento dell'elaborazione, una risorsa culturalmente connotata, portatrice di rappresentazioni sociali e immagini della realtà. Perciò, va detto che senza l’onestà intellettuale si fa solo uno squallido mercimonio. Poiché esercito la professione di insegnante, e la coscienza non è ancora totalmente assuefatta da una società che è in uno stato di coma culturale profondo, mi sono permesso di “bacchettare” lo sprovveduto articolista naïf, anello di una lunga catena dell’ignoranza. Mi preme, da un punto di vista educativo, ricordare che l’apprendimento è una forma di attività socialmente situata nel quadro di una particolare situazione pratica che il neghittoso giornalista avrebbe dovuto fare proprio. La condivisione del sapere in relazione a categorie sociali, implica non solo una dimensione astratta della conoscenza, ma il fatto che i membri di una collettività condividano concezioni e rappresentazioni della realtà. Anche per questo il processo di apprendimento tende progressivamente a caratterizzarsi per la selezione operata dal soggetto che apprende secondo preferenze e condizioni, in una dialettica tra dati di fatto e valori. Detto questo, va detto che non si tratta di lashon harà (maldicenza) nei confronti del giornalista, ma di una forma di tzedakà ovvero giustizia (se così si può dire) come ci insegnano i rabbini.
L’Aec di Bologna, invisa per tanto tempo dalla Curia e dai preti più refrattari al dialogo con gli ebrei, non è stata incoraggiata anzi a tratti è stata ostacolata e isolata. Ma, nonostante tutto l’Associazione ha organizzato incontri, dibattiti, concerti, mostre, tavole rotonde, proiezioni cinematografiche e soprattutto corsi di lingua e cultura ebraica. L’accelerazione del processo di mutamento culturale in stile evangelico è avvenuto con la nomina dell’arcivescovo Matteo Maria Zuppi che ha consentito di organizzare la Giornata del dialogo fra ebrei e cristiani come avviene già da tempo in altre diocesi italiane.
Nell’auditorium del Villaggio del fanciullo è stata allestita anche una mostra con dei pannelli sulla Storia delle Amicizie italiane realizzati dall’Aec di Firenze e già esposti a Roma in occasione dell’ICCJ.
La conferenza ha avuto come tema la Decima Parola ovvero “"Non desiderare la casa del tuo prossimo. Non desiderare la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo". Giuseppe Messina, in qualità di moderatore, nonché presidente-fondatore dell’Aec di Bologna, prima di introdurre il tema e i due illustri ospiti a rievocato la storia dell’Amicizia Ebraico Cristiana italiana e locale e poi ha analizzato in modo abbastanza dettagliato il Comandamento. A conclusione del suo discorso propedeutico ha citato una celebre frase dei Pirqé Avot che recita così: “Chi è il ricco? È colui che gioisce della sua parte.”
Il rabbino capo Alberto Sermoneta ha invece esordito così: “Saluto con affetto ormai l’amico caro mons. Zuppi con il quale ci siamo incontrati già la seconda volta e mi auguro di continuare ad incontrarci proprio come amici, amici di vecchia data. Ringrazio il prof. Messina che ha voluto con tutte le sue forze avere anche qui a Bologna una Giornata del Dialogo Ebraico Cristiano. Mi ha impedito di andare a Roma ad assistere alla Messa del papa.”
Il rabbino ha detto che il testo della Decima Parola, erroneamente detto Comandamento, è molto importante inquadrarlo all’interno dei Dieci Discorsi per poi analizzare le radici verbali. Le Dieci Parole che il Signore Iddio pronunciò in una mattina di primavera al cospetto di tutto il popolo riunito alle falde del monte Sinai le chiamò Leggi eterne. Racconta il testo biblico dell’Esodo che in quel momento quando Dio promulgò il Decalogo tutto ciò che aveva un’anima si fermò per far spazio alla Parola di Dio che stava stringendo un patto con un popolo appena nato dopo una schiavitù durata 400 anni durante la quale era stato maltrattato e vilipeso non solo psicologicamente, ma anche moralmente e al quale era stato vietato di esprimere le proprie usanze e tradizioni. Racconta un Midrash che il Decalogo è nato nel deserto e che mentre veniva promulgato si sentì un profumo di fiori, una cosa inusuale in quel luogo. Il Decalogo è una legge per la libertà, per la difesa dei più deboli. Le Parole furono proclamate in 70 lingue diverse perché 70 erano i popoli sulla terra. Le Dieci Parole sono scritte su due tavole di pietra con il dito di Dio (Ezba Elohim) che regolano il rapporto tra Dio e l’uomo nella prima parte e tra l’uomo e gli altri simili nella seconda parte. Tutte le Parole della seconda tavola iniziano con un imperativo di negazione: lo cioè non. Nella Decima Parola “Non desidererai…” da chamad che significa desiderio immenso perciò takmod è il desiderare con il cuore, volerlo con tutte le forze fino ad impossessarsi in modo illegale, inumano. Il divieto di questo comandamento, insieme agli altri, ci riconduce al rispetto per gli altri che troviamo in quella frase che è la sintesi di tutti i Comandamenti nel Levitico 19-18. La redazione del Deuteronomio è posteriore: "Non desiderare la moglie del tuo prossimo e non desiderare la casa del tuo prossimo né il suo campo né il suo schiavo né la sua schiava né il suo bue né il suo asino né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo". La posizione della donna nei Devarim è migliorata, perché essa viene messa al primo posto nella graduatoria delle cose da non desiderare. Dunque nei due testi la posizione della donna è diversa; nel primo la moglie fa parte di tutto il possesso del marito, nel secondo no. Alcuni rabbini ritengono che nel secondo è chiamata betì ovvero casa mia. La casa e la donna sono una sola cosa. Il linguaggio è giuridico, cioè ogni parola ha un suo significato particolare, e non poetico. Forse si può rilevare che al tempo della redazione del Deuteronomio la moglie era arrivata ad avere uno stato giuridico inferiore a quello del marito, ma superiore a quello degli altri possedimenti di un uomo. Qui la donna, forse, se così si può dire, ha un posto specifico, c'è un progresso nella sua posizione, le vengono riconosciuti alcuni diritti. Esiste in ebraico una parola che esprime il desiderio materiale (teshuqà), il desiderio come brama. Essa ricorre tre volte nel testo biblico, ogni volta con un senso particolare. Dopo una disamina dei verbi il rabbino ha evidenziato che un desiderio sano, un desiderio che non danneggia l’altro, e che può davvero rendere ricco l’uomo è l’essere felice del proprio destino, l’essere pago della propria porzione.
L’arcivescovo Zuppi prendendo la parola ha affermato: “Devo dire che il fatto che il rabbino Sermoneta abbia rinunciato ad andare a Roma alla Messa del papa è un attestato di grande amore di cui Messina ne deve far tesoro. Quando, poi Messina mi ha proposto di partecipare a questa Giornata ho detto subito di sì perché ritengo che sia molto importante soprattutto perché l’antisemitismo non è stato affatto sconfitto. Bisognerebbe, inoltre, organizzare una giornata che ricordi gli ebrei bolognesi che non tornarono più a casa come il rastrellamento del 16 ottobre di Roma... Inoltre, bisogna che del Dialogo non se occupino solo alcuni, ma sarebbe doveroso che se ne occupassero un po’ tutti.
Le parole dell’arcivescovo si sono incentrate, soprattutto, sul guardare l’altro senza desiderio di possesso, liberando il cuore e avendo gli occhi puri, limpidi. Il contrario non è il non desiderare, non è non vedere, ma è contemplare la bellezza con occhi puri, perché la bramosia inquina, come nell’episodio biblico, dove il re Davide manda il marito di Betzabea al fronte per poterla possedere. Il desiderio come cupidigia di possedere una donna come oggetto. La mercificazione era in passato condannata, oggi ci siamo abituati alla donna ad uso e consumo. Il desiderio come bramosia è il contrario dell’espressione “ciò che mio è tuo” che è la logica del Padre misericordioso della parabola del figliol prodigo. Soltanto attraverso una guerra verso sé stessi si può ritrovare il prossimo e abbandonare il desiderio come bramosia. Infatti, Zuppi ha ricordato un passo dei Promessi Sposi esattamente quello dell’Innominato dove dice che l’uomo vive l’inferno fino a quando vivrà per il possesso della casa e della donna, invece ciò che rende l’uomo felice è fare il bene più che stare bene.
Forse, per vivere meglio dovremmo far tesoro della celeberrima frase di Agostino d’Ippona che dice così “Ci hai fatti per te, Signore, ed è inquieto il nostro cuore fino a quando non riposa in te” cosicché il desiderio come bramosia sarebbe superato dal desiderio di vivere in Lui e per Lui.
Alla fine della conferenza il rabbino e l’arcivescovo hanno inaugurato con il taglio del nastro la nuova sede dell’Aec di Bologna ovvero un’aula del Villaggio del Fanciullo. Dopo l’inaugurazione, abbiamo partecipato al concerto per organo, di brani musicali della tradizione ebraico cristiana, diretto ed eseguito dalla pianista e maestra di musica Paola Alessandra Troili.
Giuseppe Messina